Grida, macerie, fuga e il dolore riesplode

12 Marzo 2011

Non è un film, non è neppure una notizia. E' il dolore che riesplode. E' il grido di quella notte d'aprile che penetra nella mente come un trapano che non si ferma mai: «Papà, papà». Moltiplicato per cento, per mille. E' il dramma che torna, è l'impotenza che non ti lascia respirare, è la scossa che ti rimbalza dentro e che ti scuote come prima, più forte di prima.

Ieri mattina erano le 7,30 quando dalla radio è arrivata la notizia: terremoto di magnitudo 8.9 in Giappone. Ero ancora in quel dormiveglia in cui i sogni si mescolano alla realtà. Non ci sono più brutti sogni, ma solo brutti risvegli. La prima cosa a cui ho pensato è stato il buio. Dopo una scossa forte, in qualsiasi parte del mondo cala il buio anche se è mezzogiorno. Tutto, a partire dalla tua vita diventa indistinto. La realtà si sdoppia e quando si ricompone scopri che ce n'è una sola, tragica e senza futuro.

Poi ho sentito le grida di gente in fuga, in fuga dal proprio rifugio, dai luoghi dell'anima, da chi non è stato fortunato come te e ora è sepolto sotto acqua e macerie unite insieme in una furia bestiale che non ha pietà e non vede che in quel lettino, fra le coperte che la mamma aveva amorevolmente sistemato, c'è un bimbo che sogna prati verdi e sterminati, che corre in direzione della vita, vita che in un attimo se ne va e tu non puoi nemmeno inseguirla. Non conta se hai un giorno o 100 anni. Conta che sei lì, nel posto sbagliato, che per te era quello giusto magari perché altri lo avevano scelto per darti serenità e sicurezza.

Sulle immagini traballanti e provvisorie che arrivano attraverso le tv c'è la voce dei soliti esperti capaci di ripetere all'infinito le peggiori banalità che mai tengono conto che centinaia, migliaia di persone sono state spazzate via: ognuno con una sua storia, con la sua voglia di vivere, con i suoi problemi da risolvere. Il dramma si misura a chili: 100 vittime sembrano ancora poche, mille cominciano a diventare una notizia. Eppure anche una sola vittima è sempre troppa.
Uscendo di casa ho guardato la mia Onna che non c'è più, la mia L'Aquila ferita a morte, la mia storia frantumata il sei aprile del 2009. Quel 8.9 di magnitudo per me suona come la fine del mondo. Una scossa così forte avrebbe cancellato L'Aquila e gli aquilani per sempre. Io non sarei qui a scrivere questo articolo. Non sarei qui a piangere i miei ragazzi e a pensare al dramma di genitori che in queste ore cercano i loro figli.

Ma c'è un'altra immagine che fa rinascere la rabbia. Dove l'onda "assassina" non è giunta, i palazzi hanno tremato, oscillato, ma non sono crollati. Il Giappone è uno dei paesi più attrezzati a combattere il terremoto. Sono venuti da noi a portarci solidarietà concreta e a raccontarci che dal sisma ci si può difendere. Da quello dell'Aquila ci si poteva difendere ma poco o nulla era stato fatto. E allora il dramma diventa inevitabile. Ti entra dentro, non ti molla. A un giapponese vittima come me della furia della natura oggi non direi nulla. Lo guarderei solo negli occhi. Quegli occhi a cui non basteranno più le lacrime.

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