Museo della guerra in casa con bombe, fucili e mine: a processo per i 106 reperti

9 Dicembre 2025

Giudizio immediato per un 49enne, il pm: «Detenzione illegale di armi e ordigni», ma la difesa replica: «Residuati bellici, li ha raccolti per evitare pericoli alla cittadinanza»

CHIETI. La battaglia del 1943 a Ortona non è solo un capitolo dei libri di storia. È una presenza ancora oggi ingombrante, che ha lasciato sul terreno tonnellate di ferro e tritolo. Ottant’anni dopo, quell’eredità è tornata alla luce nel modo più pericoloso possibile: in una sorta di museo illegale allestito nel garage di una casa di contrada San Marco. È qui che i carabinieri hanno scoperto quello che la procura della Repubblica di Chieti considera un vero e proprio arsenale da guerra. Protagonista della vicenda è un 49enne del posto, incensurato, che ora dovrà affrontare un processo per detenzione illegale di armi e ordigni bellici: in totale, parliamo di 106 reperti.

Il giudice per le indagini preliminari Maurizio Sacco ha accolto la richiesta del pubblico ministero Giuseppe Falasca e ha disposto il giudizio immediato. Non ci sarà l’udienza preliminare, quel filtro che solitamente serve a valutare la solidità delle accuse: in questo caso, la prova è stata ritenuta evidente. La data è già fissata sul calendario del tribunale di Chieti: il dibattimento si aprirà il 3 febbraio 2026. Fino ad allora, l’uomo resterà sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di dimora nel comune di Ortona, con il divieto assoluto di allontanarsi senza autorizzazione.

Al centro di tutto ci sono loro: le bombe. Non inerti souvenir o pezzi di ferro arrugginito da esporre su una mensola, ma ordigni che secondo gli accertamenti specialistici mantenevano intatta la loro capacità distruttiva. L’elenco del materiale sequestrato dai militari della compagnia di Ortona, al comando del maggiore Alfonso Venturi, descrive una collezione impressionante per quantità e varietà. Nella taverna e nel garage dell’uomo c’era un compendio di storia militare del Ventesimo secolo, ma carico di esplosivo.

I carabinieri hanno catalogato tre bombe a mano inglesi Mills 36M, quelle a frammentazione usate dalla fanteria britannica per “pulire” le trincee. C’era una mina anticarro tedesca M42, il classico disco metallico progettato per spezzare i cingoli dei carri Sherman, e una mina antiuomo Pmr2a. E poi l’artiglieria pesante: bombe da mortaio da 85 millimetri inglesi e da 61 millimetri tedesche, proiettili di vario calibro, spolette, codoli ancora pieni di materiale esplodente, bombe da fucile illuminanti e fumogeni. Non mancavano le armi leggere: un fucile Mauser K48, l’arma d’ordinanza della Wehrmacht, un revolver Bodeo senza matricola, baionette e persino un sistema lanciarazzi canadese Piat.

Tutto questo materiale era esposto ai rischi di un’esplosione accidentale che avrebbe potuto avere conseguenze devastanti per l’intero vicinato. È proprio su questo punto, la pericolosità sociale, che l’accusa ha calcato la mano. La polvere da sparo e il tritolo degli anni Quaranta sono sostanze instabili, che il tempo rende imprevedibili. Accumularle in casa non è collezionismo, sostiene la procura, è un reato grave contro l0incolumità pubblica.

La difesa dell’imputato, affidata all’avvocato Italo Colaneri, ha fornito una versione alternativa fin dall’interrogatorio di garanzia. L’uomo non ha negato il possesso degli oggetti – il rinvenimento era innegabile – ma ha cercato di spiegarne la finalità con motivazioni storiche e sociali. Ha raccontato al giudice di essere il presidente di un’associazione e che recuperava gli ordigni per toglierli dalla circolazione, per «preservare la comunità dai pericoli» e per creare, in futuro, un museo della memoria con il supporto delle istituzioni locali. Una tesi suggestiva, che però si scontra con la rigidità delle norme di pubblica sicurezza. In Italia non esiste il “museo fai da te” quando si parla di armi da guerra. La detenzione di materiale esplodente richiede autorizzazioni specifiche, locali idonei, protocolli di sicurezza e, soprattutto, la certezza che gli ordigni siano stati resi inermi, svuotati della carica. In quel garage, invece, le bombe erano «vive». Il gip, nell’ordinanza con cui ha convalidato l’arresto dello scorso luglio, ha sottolineato come la condotta dell’imputato, protrattasi per un tempo considerevole vista la mole di reperti, abbia creato un pericolo concreto e attuale.

A rendere ancora più complessa la posizione del 49enne c’è un secondo capitolo dell’inchiesta, che esula dalla storia militare. Durante la perquisizione, i carabinieri hanno trovato una serra artigianale, completa di lampade a raggi ultravioletti e sistema di ventilazione, dove crescevano quattro piante di canapa indiana. L’uomo ha giustificato questa coltivazione con necessità terapeutiche personali, legate a gravi patologie che avrebbe sviluppato. Anche su questo fronte, però, la magistratura è andata dritta per la sua strada, contestando il reato di coltivazione e detenzione di sostanze stupefacenti.

Il tribunale collegiale dovrà ora valutare queste due storie parallele: quella del collezionista che voleva fare un museo e quella del malato che si curava da solo. Nel frattempo, la decisione del giudice di non applicare gli arresti domiciliari ma il più lieve obbligo di dimora tiene conto dell’assenza di qualsiasi precedente penale e della situazione familiare dell’imputato, ritenendo che il divieto di uscire da Ortona sia sufficiente a impedirgli di tornare a scavare. Resta il dato di fatto di una città, Ortona, che continua a restituire pezzi di guerra. La passione per il collezionismo militare è diffusa in Abruzzo, dove si fermò per mesi il fronte della linea Gustav, ma questa inchiesta traccia una linea netta tra la memoria e il reato. Un elmetto arrugginito è un ricordo; una bomba da mortaio carica è un pericolo. La differenza, per la legge e per la sicurezza di tutti, passa tutta da lì.

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