Tangentopoli trent’anni fa: quel blitz scattato all’alba che rivoluzionò la politica 

L’associazione “Chieti Nuova 3 febbraio” ricorda la maxi inchiesta del 1993 I manifesti sul Corso e alla villa comunale: «Va riconquistata la passione civile»

CHIETI. Partì tutto da una scuola elementare, quella di Selvaiezzi, rimasta allo stato di scheletro ma pagata come se fosse finita. Da quell’edificio incompiuto si scoprì dell’altro, molto altro, perché a Chieti non c’era opera pubblica che non fosse stata oliata da sostanziose mazzette di imprenditori più o meno compiacenti.
Sono passati trent’anni dalla mattina in cui i teatini furono svegliati dal clamore di arresti eccellenti. Era il 3 febbraio 1993: all’alba del giorno prima, quasi l’intera giunta del sindaco Andrea Buracchio, a monocolore democristiana, e alcuni funzionari comunali erano finiti in manette. Fu quello l’inizio della tangentopoli che cambiò la geografia politica teatina. Pochi giorni più tardi, nella notte di San Valentino, tra il 13 e 14 febbraio, toccò all’allora sindaco varcare la soglia del carcere di Madonna del Freddo.
Il malaffare si annidava ovunque, persino nelle pietre laviche che ricoprivano corso Marrucino. Era lava dell’Etna e non del Vesuvio, quindi meno costosa: la differenza erano bustarelle. L’inchiesta, capace di cancellare un’intera classe politica, portò la firma del procuratore capo Bruno Paolo Amicarelli, scomparso nel 2019, e di un allora giovane capitano dei carabinieri, Claudio Domizi, oggi generale di divisione e comandante della Scuola ufficiali dell’Arma.
A spazzare via l’amministrazione scudocrociata fu la confessione di un imprenditore, Nicola Serano: «Per poter lavorare a Chieti», raccontò, «devi sottostare a una sola legge: quella della tangente. Una tangente del cinque per cento che, tradotta in lire, fa la prima volta 45 milioni e la seconda volta quasi 40, da dividere per cinque. Una per ogni assessore, tra i quali c’è quello che raccoglie i soldi e poi li ridistribuisce e c’è quell’altro che chiama al telefono e fa capire che vuole anche lui la sua parte. Qualche volta ti va bene, perché il politico si accontenta di una cena da un milione e mezzo. Altre volte no, perché arriva a pretendere anche un lingotto d’oro. Sono come sanguisughe». Così si scoperchiò il vaso di Pandora, sfociato in un blitz scattato alle sei del mattino, quando 75 carabinieri in uniforme si presentarono a casa di amministratori e funzionari municipali. Undici giorni dopo, toccò al sindaco entrare in cella, mentre i curiosi, davanti al carcere, stappavano bottiglie di spumante.
Trent’anni fa, dunque, Chieti si svegliò bruscamente e affermò a gran voce di non volere più quei rappresentanti sulle poltrone più prestigiose di palazzo d'Achille. Un movimento di dissenso che diede vita all’associazione “Chieti nuova 3 febbraio”, nata all'indomani della scoperta della cupola delle tangenti. Intorno a Maria Rosaria Grazioso, Giorgio Bellelli, Francesco Iengo, Tiziano Bellelli e Giuseppe Di Luzio si radunarono cittadini desiderosi di «ricostruire le ragioni e i modi di vivere insieme, riappropriandosi del patrimonio di storia e di memoria, di identità e di appartenenza, di senso della responsabilità e di regole da rispettare».
Ieri mattina, tre decenni dopo, “Chieti nuova 3 febbraio” ha ricordato quel giorno con i manifesti comparsi lungo corso Marrucino e il viale che porta alla villa comunale: «Ribadiamo il nostro impegno a lavorare per contribuire a superare, senza dimenticare, l’indifferenza, l’impotenza, la rassegnazione. Tutti insieme, consapevoli della bellezza della relazione con l’altro, recuperiamo il coraggio di analizzare gli errori passati e presenti, riconquistiamo la passione civile e il significato dell’essere cittadini, avendo come faro la Costituzione».