Alluvione del 1992, Pescara in ginocchio nelle foto di Rino D'Ostilio / Le foto

È il 10 aprile del 1992 quando la furia del fiume Pescara inonda in un pomeriggio la città. Venti anni dopo il fotoreporter Rino D'Ostilio ha ripreso le sue foto

«Non è l'acqua che fa sbadigliare, ma chiudere porte e finestre, nera di malasorte, che ammazza e passa oltre, nera come la sfortuna che si fa la tana dove non c'è luna, nera che porta via la via, nera che non si vedeva da una vita intera così dolcenera, nera». E dal nero Rino D'Ostilio vira su tutti i toni del grigio, e quanti sono i grigi di quegli scatti che narrano la furia del Pescara che nel pomeriggio del 10 aprile del 1992 inondò la città, prese a correre lungo le strade, irruppe in scantinati e negozi e case, sbriciolò ponti, uccise tre persone, mise in ginocchio la marineria risucchiando decine e decine di barche, vongolare e pescherecci dai nomi di donne amate, mamme venerate come madonne, attricette sognate nelle notti a pesca al largo dell'Adriatico. Venti anni dopo l'alluvione questo fotoreporter di razza antica, pescarese fino alle midolla, ha ripreso in mano quelle foto, fatte in grande parte per il Centro, il giornale per cui lavorava e che testimoniò ora dopo ora, immagine dopo immagine quel disastro annunciato (e oggi non ancora sventato), le ha ingrandite senza modificarne densità e taglio e ne ha fatto una mostra.

Si intitola "Rino D'Ostilio, il ricordo", ed è ospitata fino a domani, salvo proroghe già richieste, nelle sale della Fondazione Pescarabruzzo (che l'ha patrocinata) al civico 83 di corso Umberto I (1º piano) ed è l'unica iniziativa in città per il ventennale di quella drammatica vicenda, benchè - come hanno sottolineato ingegneri idraulici, geologi e politici inaugurando l'esposizione nei giorni scorsi con un convegno - con il porto canale di Pescara ridotto a una palude melmosa, «la cronaca di quei giorni potrebbe tornare a essere quella di oggi». Su semplici cavalletti di legno biondo D'Ostilio ha voluto copie delle pagine e pagine del quotidiano dell'Abruzzo di quella settimana di tempesta del 1992, accanto alle gigatografie dei suoi marinai sulle golene e sui motopescherecci, vicini, solidali senza parole, con le mani nodose e gonfie dallo sforzo di tenere le cime nel disperato tentativo di impedire a "Gigliola", "Assunta", "Marilyn", a ogni barca nel porto di entrare nel gorgo furioso del fiume in piena, infrangersi l'una contro l'altra e affondare, portandosi dietro anni di lavoro duro, l'eredità di padri e nonni, una fetta di futuro dei figli. D'Ostilio "sente" attraverso l'obiettivo, inquadra, coglie i grigi, rapisce una luce radente, e quando i sentimenti dei suoi soggetti si fanno troppo forti per restare pudicamente dietro ordini gridati in dialetto da una prua spezzata alla banchina, lui scatta. Scatta quando l'emozione scoppia su volti abituati all'amaro della salsedine e non delle lacrime. E sulla pellicola ferma una storia.

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