Il grido delle mamme: «Ragazzi, dove siete?»

Via Crucis dei parenti delle vittime alla fiaccolata commemorativa in centro storico Alle 3,32 solo una trentina di persone in piazza Duomo, sono i resistenti del dolore

L’AQUILA. La vedi aggirarsi nel buio della notte con una croce di legno addosso, una bandierina della Grecia nella mano sinistra, e, nella destra, la foto del figlio e una lanterna. Un po’ Madonna addolorata un po’ Diogene il Cinico, il filosofo che cercava l’uomo. Anche lei continua a cercare da otto anni il suo Vasileios, per gli amici Vasilis, che significa regale. Il suo re, l’amato figlio, è rimasto sotto le macerie di via Campo di Fossa. Era quasi ingegnere, ma non ha fatto in tempo a progettare nulla. Dall’isola di Salamina, come ogni anno, la mamma di Vasileios Koufolias, scomparso a 28 anni ancora da compiere, è venuta all’Aquila per combattere la sua personalissima guerra, dall’esito diverso di quella di Temistocle contro i Persiani. Di fronte non c’è Serse, anche se i suoi nemici sono enormi, proprio come quelle navi che s’infilarono nello stretto, e fu la loro rovina. Dall’Egeo al Gran Sasso, anche quest’anno è qui, stanotte, per avere una risposta che ancora nessuno le ha dato. Una giustizia che si perde tra una prescrizione e l’altra. Un silenzio che non è per rispetto delle vittime, ma perché non si sa cosa dire. Nessuno sa cosa dirle. Un distacco che, col passare degli anni, aumenta sempre di più. E che assume, giorno dopo giorno, i connotati dell’indifferenza, se non del fastidio.

«PUNITELI TUTTI». «Era uno studente greco, è venuto con sogni, ma il vostro paese ha dato una croce alla mia famiglia. Vasilis ancora una volta non tornerà a casa. Chiedo la punizione di qualsiasi responsabile di questo danno, di questa catastrofe. Voglio mio figlio indietro, voglio una giustizia vera per via Campo di Fossa. Basta». La sua sentenza l’ha scritta su un cartellone che porta appeso al collo. Se ne sta in silenzio per tutte le stazioni del tragitto laico del dolore, per poi esplodere, affacciata alla balconata che dà su piazzale Paoli, in un grido accorato: «Agapimu, agapimu», che significa amore mio come nella canzone di Mia Martini. Grida da sola, ma ha una voce talmente possente nel silenzio della notte più lunga e silenziosa di tutte, che sembra contenerne altre, quelle di tutte le mamme, dall’Aquila ad Amatrice, da Accumoli ad Arquata, da Viareggio alla Terra dei fuochi.

CUORI ROSSI. Palloncini a forma di cuori rossi, cuori di mamma, sono legati a una ringhiera davanti alla fotografia di Francesca Milani, nove-anni-nove, che andava in quarta elementare e la chiamavano tutti “Chicca”, oppure “Stellina”. Amava disegnare e adorava le Winx. Oggi, di lei, resta la foto con due occhioni grandi così, che entrano nei tuoi se fai una sosta all’angolo di via delle Bone Novelle. Che quella nottataccia, però, furono tutto il contrario. Funeste. Le fanno compagnia una coccinella di pezza, che non ha portato per niente fortuna, e altri pupazzetti ormai spelacchiati. La Spoon River aquilana è questa qui. Chi partecipa al rito di dolore personale che, una volta all’anno, all’Aquila, diventa collettivo, accetta di affacciarsi per un attimo, ma giusto un paio d’ore, in una dimensione altrimenti inavvicinabile, incomprensibile. Indicibile. L’arcivescovo Giuseppe Petrocchi, nella sua omelia nella basilica di San Giuseppe Artigiano a corteo finito, la chiama cattedra della Croce. Ma di quelli che camminano stanotte, nessuno ha mai chiesto di salirci. Anzi.

BAR APERTI. La fiaccolata che si assottiglia numericamente, ma non certo perde di significato – almeno per chi vi partecipa – a otto anni dal sisma si muove in un contesto mutato. In via XX Settembre la gente è tornata ad abitare, e dai balconi delle case piovono fiori bianchi. Più su, alla Villa, il vuoto dei palazzi abbattuti lascia aperta la speranza che, quando sarà di nuovo colmato, quello spazio sia almeno un po’ più sicuro di quegli altri lungo questa stessa via. Bar aperti, luci accese. Questo lo scenario che accoglie il serpentone delle fiaccole che, quasi quasi, non fanno più la stessa luce di otto anni fa. Gli stessi bar per il corso e in piazza sono aperti. Ci si ricovera chi ha freddo. Un altro segno del tempo che passa. E che certe cose le rimette a posto. Mentre altre proprio no. Anzi. «Il dolore è mio», ha detto il medico Massimo Cinque, che ha perso moglie e due figli, annunciando la sua assenza alla fiaccolata di quella che egli stesso definisce «una città assente e lontana». Ci sono le delegazioni dei nuovi terremoti. E delle altre «stragi di Stato». Eppure, le trenta persone che alle 3,32 si stringono nei loro giacconi in una piazza Duomo ormai deserta per chiudere gli occhi al suono dei 309 rintocchi fanno capire che il dolore è di chi ce l’ha. Sono, questi sì, i resistenti del dolore.

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