«Ansia di prestazioni? Il fenomeno non riguarda soltanto i professionisti»

In Italia si stima che su 25-26 milioni di praticanti almeno un quinto abbia fatto uso di sostanze proibite

PESCARA. «In Italia si stima che su 25-26 milioni di persone che praticano attività sportiva, almeno un quinto abbia avuto a che fare con una sostanza dopante: parliamo di quattro o cinque milioni di persone: la stima è difficile, ma la cifra è enorme». Tommaso Marchese, avvocato di Pescara, esperto di diritto sanitario e sportivo e componente della Commissione interministeriale per la vigilanza e il controllo sul doping che si prepara a presentare la relazione nazionale al Parlamento, racconta come il doping sia ormai diventato un fenomeno di massa, un meccanismo in cui si incagliano non solo i professionisti dello sport, ma anche e soprattutto chi fa attività a livello amatoriale.

«C'è un aspetto psicologico e sociale importantissimo» spiega Marchese, «mentre in chi fa sport ad alto livello c'è una componente economica forte, perché la carriera dell'atleta è limitata, nei non agonisti la motivazione spesso è disarmante, e nasce dal messaggio che tutti dobbiamo essere vincenti e forti, che genera ansia da prestazione anche solo per vincere una coppetta. Basta dire che noi abbiamo controllato un master di nuoto riservato agli over 45: su otto finalisti, sei sono risultati positivi».

Per fare chiarezza sugli aspetti giuridici, Marchese mette a confronto il diritto statale e quello sportivo attorno al perno di un caso-simbolo esploso nel 2001 e destinato a fare giurisprudenza: il caso di Josep «Pep» Guardiola Sala, oggi allenatore pluridecorato del Barcellona, che nove anni fa, al crepuscolo della carriera da calciatore, approda in Italia nel Brescia di Roberto Baggio e, al primo controllo, viene trovato positivo al test antidoping. Nandrolone.

È una vicenda che finisce sotto i riflettori della stampa sportiva di tutto il mondo. «Pep all'epoca ha 31 anni, in patria lo chiamano "el Mito", non ha più ambizioni di carriera, è stato il più grande giocatore catalano di tutti i tempi ed è stato l'unico nella storia a vincere nello stesso anno Coppa dei campioni e Olimpiadi: e quest'uomo simbolo viene colpito da una macchia terribile».

Guardiola non ci sta. Marchese, ingaggiato per la difesa, si mette alla testa di un pool di esperti internazionali, e Pep incassa una squalifica di appena quattro mesi. La battaglia legale, però, va avanti.  «L'ordinamento sportivo è molto chiuso: se vieni trovato positivo, si presume la tua colpevolezza. Gli atti vengono inviati anche alla procura competente, quella di Brescia, ma il processo rimane pendente a Roma».

A Brescia, in primo grado, Guardiola viene giudicato da un giudice onorario che lo condanna a sette mesi di reclusione.  «Nel 2005, grazie agli sforzi della comunità scientifica internazionale - incentivate da me e dal pool internazionale anche sulle normative di esecuzione tecnica dei controlli - l'Agenzia mondiale antidoping emana una nota tecnica che spiega che, in presenza di certi parametri complementari, il test non ha un grado sufficiente di attendibilirtà e deve essere ripetuto».

Ma ovviamente, a distanza di anni, il test non si può ripetere. Mentre la data dell'appello tarda a essere fissata, il reato si avvicina alla prescrizione. Guardiola però vuole arrivare in fondo e rinuncia alla prescrizione. Intanto è andato a giocare nel Qatar, poi sarà la volta del Messico prima di diventare l'allenatore dei sei titoli in una sola stagione.

«Per l'appello viene in Italia, racconta ai giudici che lui non è mai entrato a contatto con le sostanze, ma non è mai stato ascoltato dalla giustizia sportiva: e la corte d'appello lo assolve perché il fatto non sussiste. Si risolve anche la questione davanti al tribunale di Roma con il ne bis in idem, passano in giudicato le sentenze».

Nel frattempo, il codice di giustizia sportiva della Federazione italiana gioco calcio cambia e proprio dal gennaio 2009 entra in vigore una nuova disposizione che prevede per la prima volta in un ordinamento sportivo la revisione di una sentenza di condanna passata in giudicato: «Proponiamo il ricorso sostenendo che si è scoperta una prova nuova. Siamo di fronte a una inconciliabilità tra la sentenza di un giudice dello Stato e la sentenza di un giudice sportivo in ordinamenti separati, perché lo Stato non può intervenire sulle sentenze sportive. Ma per la prima volta il principio di separatezza tra i due ordinamenti viene messo in discussione».

L'8 maggio 2009, la Corte di giustizia federale accoglie il giudizio di revisione, cancella la condanna e riabilita pienamente l'allenatore del Barcellona affermando che i test non erano attendibili e che non si ha la prova che Guardiola possa essersi dopato. Il 29 maggio però, il giorno dopo la vittoria a Roma contro il Manchester United nella Coppa dei Campioni, dedicata al calcio italiano, la festa di Guardiola viene rovinata: arriva la notizia che la procura antidoping ha presentato appello e chiede la riapertura del caso.

«Pochi mesi dopo, però, il 29 settembre il Tribunale nazionale antidoping conferma l'appello e parla addirittura di una "armoniosa convivenza tra i due ordinamenti", affermando che l'ordinamento sportivo non può essere impermeabile all'ordinamento generale e che la contraddittorietà tra i giudicati va riguardata anche alla luce dell'assoluzione in giudizio penale soprattutto se il fatto non sussiste».

Per Marchese, la vicenda Guardiola è emblematica: «Questa vicenda ha interpretato le disposizioni dell'ordinamento sportivo in senso estensivo: novità erano già state introdotte ma se ne contestava l'ammissibilità in questi casi, un orientamento modificato grazie al pronunciamento della Corte di giustizia federale a sezioni unite, una specie di Cassazione presieduta da Giancarlo Coraggio: non sarebbe logico affermare che l'inconciliabità tra giudicati si può avere solo nell'ambito dell'ordinamento speciale sportivo perché è soprattutto dall'ordinamento statale, con le sue tecniche di accertamento, che noi possiamo trarre elementi di convincimento».

Ma altri cambiamenti sono necessari, secondo Marchese, per un fenomeno che ha assunto «dimensioni preoccupanti».

«Con la Commissione governativa antidoping, dove rappresento le Regioni e le Province autonome, sto portando avanti la battaglia per i laboratori regionali, in modo da sottrarre al Coni il monopolio nell'accertamento della verità sul doping» spiega Marchese. «In Italia oggi esiste solo il laboratorio dell'Acqua Acetosa sotto il Coni, ma il sistema non funziona perché non ha prodotto i frutti sperati: la mia commissione, che non si occupa di sport di alto livello, ma del doping che riguarda il ragazzo della corsa della Val Brembana trovato con valori di ematocrito altissimi e a rischio di insorgenza tumorale, nonostante i pochissimi soldi tagliati di anno in anno, ha prodotto in termini di accertamento di positività di controlli più di quanto abbia prodotto il Coni. Secondo laboratorio Coni» sottolinea, «in Italia oggi nel calcio non c'è più il doping, sono dei cretini che prendono la cocaina, che però non è doping».

È per questo che la Commissione ha proposto e fatto realizzare i laboratori regionali: a Torino usando quello nato a Orbassano per le Olimpiadi 2006, e in Veneto. In Emilia Romagna a Modena c'è un laboratorio di Tossicologia forense in cui si fa anche ricerca sul doping, ma l'unico accreditato è quello della Toscana: «Un risultato importante perché almeno un'altra voce c'è, anche se ci ostacolano. Il Coni nel ciclismo ha rilevato una casistica di positività del 5,7 per cento su a noi è 16,5%, come mai tre volte tanto?».

Lo ribadisce Marchese: la punta dell'iceberg, che riguarda i professionisti, è meno preoccupante della base: «Nello sport dilettantistico e amatoriale c'è un sommerso terrificante, e anche le norme sono inadeguate. Oggi può essere sottoposto a controllo antidoping sono un tesserato: quindi, se qualcuno va in palestra e vuole fare un controllo a un non tesserato non può, è possibile solo ai Nas se ci sono sufficienti e gravi indizi di colpevolezza sul traffico di sostanze dopanti in quella palestra, con un mandato di perquisizione. Quindi in italia il consumo di sostanze dopanti è sostanzialmente libero, c'è solo il problema di procurarsi le sostanze: certo non vai in farmacia, anche se c'è qualche farmacista compiacente, che fa preparati galenici: ci sono però sostanze che combinate tra di loro hanno un effetto dopante, basta pensare alla combinazione tra una nota bevanda con effedrina e anfetamina, una bomba dopante che per l'evento ti dà una carica che si esaurisce in fretta e ha anche forti controindicazioni».

L'avvocato Tommaso Marchese, è originario di Popoli. Docente di Legislazione sanitaria e rapporti socio-economici all'università Lum Jean Monnet di Casamassima (Bari), ha mandato in libreria per la Cacucci Editore di Bari un manuale giudirico, «Il doping nell'ordinamento generale e in quello sportivo». Il volumetto è disponibile in anteprima da martedì scorso alla Libreria dell'università di via Parini: 118 pagine (12 euro) in cui per la prima volta il diritto statale e quello sportivo vengono messi a confronto, attorno al perno alle vicenda di Pep Guardiola, caso-simbolo, dell'ex calciatore oggi allenatore dei blaugrana, esploso nel 2001, e destinato a fare giurisprudenza.

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