La pellicola sceneggiata da Ennio Flaiano fu presentata il 5 febbraio 1960 a Milano

C’era una volta la Dolce vita

Cinquant’anni fa il film di Fellini che segnò un’epoca.

«La prima sceneggiatura della “Dolce vita” era un disegno: raffigurava un uomo dal fallo enorme, che nuotava circondato da stelle marine, pesciolini e alghe, mentre bellissime fanciulle nuotavano attorno a lui, come in un film di Esther Williams».
Marcello Mastroianni, nel 1994, in un’intervista al Corriere della Sera, raccontava così l’origine del film di Federico Fellini che quest’anno celebra il suo mezzo secolo di vita. «La dolce vita» fu proiettato per la prima volta davanti al pubblico, il 5 febbraio 1960 a Milano. La reazione fu, in gran parte, negativa: Fellini si beccò uno sputo e un insulto (uno spettatore gli gridò «Comunista!»). Per Flaiano, che del film era lo sceneggiatore insieme a Tullio Pinelli, quel fiasco preannunciò quello che nove mesi dopo, sempre a Milano, avrebbe affondato il suo «Marziano a Roma» ispirandogli una delle sue battute più fulminanti: «L’insuccesso mi ha dato alla testa».

Lo scrittore pescarese - di cui il 5 marzo ricorre il centenario della nascita - era presente a quel primo incontro fra Fellini e il suo fututo protagonista. Quel giorno, sulla spiaggia di Fregene, Fellini chiese a Flaiano di mostrargli la sceneggiatura del film. E Flaiano sorridendo passò a Mastroianni una cartella che conteneva soltanto quel disegno.
Dopo gli sputi e gli insulti della sera della prima e le reazioni discordi della critica - «Splendido, amatissimo, rarissimo film», scrisse Giuseppe Marotta; «Ambizioso polpettone» sentenziò Giovanni Mosca - «La dolce vita» si guadagnò presto lo status di film mitico e mitologico sull’Italia del Boom, conquistando, tre mesi dopo, la Palma d’oro al Festival di Cannes.

La storia è poco più che uno spunto per un affresco della Capitale (e dell’Italia) alla fine degli anni ’50, quella in cui convivono, fianco a fianco, i nuovi ricchi del «generone» romano, le star della Hollywood sul Tevere, e gli intellettuali, gli happy few (di cui facevano parte gli stessi Fellini e Flaiano) che, la sera, si ritrovano in via Veneto ai tavolini di Rosati e Doney. Il Virgilio che guida lo spettatore in questa laica discesa agli inferi è Marcello, il giornalista di provincia inurbato a Roma, interpretato da Mastroianni, che, nella prima stesura della sceneggiatura, era null’altro che Moraldo, il personaggio dei «Vitelloni», interpretato da Franco Interlenghi, che, alla fine di quel film, sempre diretto da Fellini e scritto da Flaiano (ispirandosi ai suoi ricordi pescaresi), saliva sul treno che da Rimini l’avrebbe portato a Roma.

Nel libro «La solitudine del satiro» Flaiano rievoca la genesi del film e l’origine del termine Paparazzo, il nome di uno degli onnipresenti fotografi cacciatori di star e starlette, destinato a diventare uno dei neologismi più pervasivi della lingua italiana.
Nei «Fogli di via Veneto», Flaiano annota che, nel giugno 1958, sta lavorando con Fellini e Pinelli su una vecchia idea, quella del giovane provinciale che sbarca a Roma per fare il giornalista. «Fellini», scrive, «vuole adeguarla ai tempi che corrono, dare un ritratto di questa “società del caffé” che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere, una società che, passato lo spavento della Guerra Fredda e forse proprio per reazione, prospera un po’ dappertutto. Ma qui a Roma, per una mescolanza di sacro e di profano, di vecchio e di nuovo, per l’arrivo massiccio di stranieri, presenta caratteri più aggressivi, sub-tropicali. Il film avrà per titolo “La dolce vita” e non ne abbiamo scritto ancora una riga».

Paparazzo? «Per questo fotografo non sappiamo che inventare», scrive ancora lo scrittore pescarese, «finché, aprendo a caso quell’aureo libretto di George Gessing che si intitola “Sulle rive dello Jonio” troviamo un nome prestigioso: “Paparazzo”. Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di un albergatore delle Calabrie, del quale Gessing parla con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino».
Cosa resta, oggi, di un film che ha segnato a tal punto la storia del costume nazionale da diventarne una metafora, l’Italia della Dolce vita? Soprattutto, le immagini a cui il tempo ha donato la scorza resistente del mito: il bagno di Anita Ekberg e Marcello Mastroianni nella Fontana di Trevi; la grande statua bianca del Cristo appesa a un elicottero che sorvola Roma nella sequenza iniziale; l’incontro sulla spiaggia fra Mastroianni reduce da una notte perduta e una ragazza (Valeria Ciangottini).

In queste ultime inquadrature, Mastroianni vestito di bianco come il Cristo dell’incipit del film, si muove con i tempi di una pantomima del cinema muto. La ragazza pronuncia delle parole, ma lui è troppo lontano per udirle, e noi con lui. Non sapremo mai se erano un sortilegio salvifico o solo un malinconico commiato dalla nostra collettiva infanzia di nazione.