Comunali, dalle carceri alle urne

Le liste di agenti penitenziari alle elezioni del 28 marzo. Candidati a Rocca Pia Roccacasale e Guilmi Un fenomeno in crescita a livello nazionale

PESCARA. Una lista a Rocca Pia, un’altra a Roccacasale, un’altra ancora a Guilmi. C’è una geografia segreta e sorprendente delle elezioni comunali del 28 e del 29 marzo in Abruzzo.
E’ quella a cui rimanda la mappa delle liste di candidati formate da agenti penitenziari, quelli che una volta si chiamavano secondini. Sono oltre 50 gli agenti in lista nei comuni della Valle Peligna. Fra di loro anche un candidato sindaco. Solo pochi di loro hanno la possibilità di essere eletti. In alcuni casi si tratta di candidature fittizie che servono soprattutto per ottenere il congedo previsto dal Corpo in queste circostanze.

Il fenomeno rischia di provocare pesanti ripercussioni nel carcere di Sulmona, già in forte difficoltà a causa del sovraffollamento dei detenuti e della mancanza di personale. Tanto che, mesi fa, i sindacati di categoria i quali avevano invano chiesto all’amministrazione penitenziaria, rinforzi in vista delle elezioni.

L’assenza di una cinquantina di agenti per l’intera campagna elettorale rischia di creare disfunzioni nel carcere costringendo il personale che resterà al lavoro a turni duri e a situazioni di rischio.

Il fenomeno non è nuovo e non riguarda solo l’Abruzzo. Mille candidati nel 2008. Talmente tanti che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria diramò una circolare che disponeva un censimento degli agenti aspiranti politici. Soltanto nel carcere di Augusta in Sicilia c’erano 17 candidati su 250 agenti.

Sempre nel 2008, a San Pietro in Amantea, un piccolo comune della provincia di Cosenza, si presentò una lista con tredici candidati, tutti agenti di polizia penitenziaria e nessuno era del paese. Il nome della lista? Paradossale, in un certo senso: San Pietro per la Libertà.

«Da anni un gruppo di agenti di Campobasso formano una lista che si presenta nei comuni vicini», ha raccontato Donato Capece, segretario nazionale del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria.

Ma perché questa corsa alle urne da parte delle guardie carcerarie?

Il fenomeno si spiega, forse, proprio con l’esigenza di prendere una pausa da un lavoro duro dal punto di vista fisico e psicologico.

Una circolare dell’ufficio centrale personale del ministero della Giustizia del 2000 spiegava così ciò che succede quando un agente decide di candidarsi: «Il direttore dell’istituto o servizio, in ossequio al principio secondo il quale chi è candidato non può svolgere servizio, dispenserà il dipendente dall’esercizio di qualsivoglia attività, con proprio provvedimento provvisorio, in attesa della concessione formale dell’aspettativa; tale aspettativa concessa d’ufficio avrà la durata della campagna elettorale, cioè avrà termine il secondo giorno precedente la data stabilita per le elezioni».

Insomma trenta giorni di distacco pagato dal lavoro.

La stessa circolare disponeva, pio, che «gli appartenenti alle forze di polizia non possono prestare servizio nell’ambito della circoscrizione nella quale si sono presentati come candidati alle elezioni per un periodo di tre anni dalla data delle elezioni stesse; in caso di elezione, tale divieto opera per l’intera durata del mandato, e comunque per un periodo non inferiore a tre anni».

Questo significa che gli appartenenti al corpo che si siano candidati alle elezioni saranno trasferiti ad altra sede penitenziaria appartenente a circoscrizione o collegio diversi da quelli nei quali si sono presentati come candidati.

Insomma, oltre alla necessità di prendersi un break dalla durezza del lavoro, dietro alla «moda» delle candidature ci potrebbe essere anche il desiderio di essere trasferiti in un’altra sede.

Ma il problema vero resta quello della natura usurante del lavoro svolto fra le mura di un carcere.

Sebastiano Bongiovanni, un agente di polizia penitenziaria ad Augusta e consigliere comunale, nel 2007 segnalò alla procura di Siracusa che 70 suoi colleghi erano candidati alle elezioni, «Non perché si trattasse di lavativi, anzi. Dovremmo candidarci tutti e 250, perché la nostra vita è un inferno. I detenuti sono più di 600, in un carcere che cade letteralmente a pezzi, dove l’acqua c’è soltanto tre ore al giorno. E noi rischiamo la vita per 1.500 euro al mese, senza possibilità di trasferimenti».

Dostoevskij dice che «il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni». E’ tutto da dimostrare che il grande romanziere russo pensasse solo a chi sta dalla parte sbagliata delle sbarre.