De Angelis: "Mio fratello Nanni, cuore nero, le sue ceneri sparse sul Gran Sasso”

L’ex senatore è trai fondatori del movimento “Terza posizione”
Latitanza, carcere e rinascita: la sua storia è intrecciata con quella dell’Italia
L’AQUILA. Oggi, a 65 anni, se potesse tornare indietro cambierebbe qualcosa?
«Onestamente? Cambierei tutto».
La storia di Marcello De Angelis è uno spaccato generazionale del nostro Paese. Di famiglia abruzzese, è nato nel 1960. Ha quindi vissuto il difficilissimo periodo degli Anni di piombo. Un’epoca di sogni rivoluzionari e di passioni politiche autentiche, ma anche di violenza e ferite ancora oggi mai rimarginate. Insieme al fratello maggiore Nanni ha fondato Terza posizione, un movimento nato a destra ma che si proclamava trasversale. La loro storia è legata a doppio filo con questi anni. A farne le spese sarà Nanni, uno dei “cuori neri” più mitizzati dalla destra, che perde la vita in circostanze mai del tutto chiarite. Ripercorrere la storia di quest’uomo, che a tratti assomiglia a un film d’azione, tra latitanza, prigione e rinascita (gli abruzzesi lo hanno eletto parlamentare due volte) significa inseguire un passato che, per il suo protagonista «non è mai stato del tutto superato». Lui e l’Italia portano le stesse cicatrici.
De Angelis, partiamo dal principio. La sua famiglia è originaria dell’Aquila.
«In realtà, tutto il mio ramo paterno è originario di Poggio Cancelli (frazione di Campotosto, ndr). Mio nonno Nazareno è stato uno dei più grandi bassi del ’900. Ill teatro dell’Aquila oggi porta il suo nome. L’unico aquilano vero, comunque, è mio padre, che ha fatto il liceo qui e poi è andato all’Accademia di belle arti a Roma, dove ha conosciuto mia madre. Noi siamo tutti cresciuti nella Capitale».
Rapporti del nonno col fascismo?
«Come tutte le personalità importanti, gli era stato chiesto il tesseramento. Lui aderì con il dovuto entusiasmo. Nel ’38, però, gli tolsero la tessera dopo una lettera di fuoco in cui accusava i rappresentanti del partito di essere faccendieri. Pensava di essere intoccabile perché in vista (ride, ndr). Ovviamente si sbagliava».
A casa si parlava di politica?
«Pochissimo, non so se perché i miei genitori non volessero influenzare i figli o altro, ma non è mai stato argomento di discussione. Mio padre non votava e mia madre era con i radicali».
E i valori trasmessi dalla famiglia erano di destra?
«Non direi, semmai conservatori. Declinati, tra l’altro, in modo bislacco, perché l’ascendente artistico della nostra famiglia aveva un peso anche dal punto di vista culturale».
Quand’è che la politica è entrata nella sua vita?
«Al liceo. Ma, vede, allora la politica era un po’ come il calcio. I parenti, gli amici del quartiere, i compagni di classe: sono questi elementi del contesto sociale che influenzano la tua adesione politica quando entri al liceo, da questo punto di vista un vero spartiacque. Al primo giorno di scuola mi sono trovato davanti i due schieramenti che facevano volantinaggio. E ho dovuto scegliere da che parte stare».
Chi incise sulle sue idee politiche allora?
«Io andavo dietro a Nanni, che era il fratello grande, e lui aveva un compagno di classe che per ragioni di famiglia era fascistissimo. Avevamo anche due cugini delle stesse idee perché il loro bisnonno era stato legato al ministero della difesa italiano durante il regime».
Prima manifestazione?
«Nel 1974 degli amici più grandi mi portarono al funerale di Junio Valerio Borghese. L’evento mi impressionò moltissimo. E tra l’altro fu quasi casuale, perché io ero uscito con quei ragazzi per andare a un festival hippie di musica rock che c’era in quei giorni a Villa Borghese. Una specie di piccola Woodstock».
Aspetti, De Angelis a 14 anni voleva andare ai festival hippie?
«Gliel’ho detto, l’ascendente artistico nella nostra famiglia è forte. Io suono la chitarra, mio fratello suonava il flauto. Mia sorella ha studiato musica. È sempre stata una passione».
Come si vestiva allora?
«Avevo i capelli lunghi, indossavo i sandali. E a vent’anni mi sono anche fatto l’orecchino!».
Non proprio lo stereotipo del ragazzo di destra di allora.
«Col tempo si sono creati delle iconografie che hanno diviso le persone in stili, ma la realtà è che era tutto molto più sfumato. I jeans a zampa, per esempio, li indossavamo quasi tutti».
Al di là dello stile di allora, lei sperava di andare a un festival hippie e invece finì ai funerali di Borghese, comandante della X Mas che aderì alla Repubblica di Salò dopo l’Armistizio. Cosa la impressionò di quella celebrazione?
«Le lacrime di questi signori anziani che gridavano “decima comandante, decima comandante”. Avevano tutti il basco verde in testa, il fazzoletto al collo. Vederli piangere in quel modo mi impressionò, ero un ragazzino».
Si identificò con loro?
«Ne rimasi impressionato, ma penso che avrei provato le stesse emozioni se avessi partecipato ai funerali di un partigiano in cui i suoi vecchi compagni piangevano alzando il pugno».
Da quest’evento inizia il suo attivismo politico. Nanni era sempre con lei?
«Facevamo tutto insieme ma, come ogni coppia di fratelli, cercavamo di distinguerci. Ma nel nostro gruppo c’erano gli amici del quartiere, della parrocchia, i parenti che la pensavano come noi. Eravamo una comunità».
Arriviamo al ’78, quando viene fondata Terza posizione?
«Prima bisogna partire da Lotta studentesca, che in quegli anni si stava perdendo pezzi, perché molti di quelli che avevano fatto politica studentesca fino ad allora erano cresciuti, prendendo altre strade. Era il 1977. CI furono due incontri fondamentali. Prima con un gruppo di ragazzi di un altro liceo che erano come noi, vestiti male e con i capelli lunghi. Ci avevano notato per dei manifesti che avevamo appeso l’anno precedente per la rivolta di Budapest. Loro erano dei rautiani, e ci trovammo subito. Ma furono dei ragazzi di Lotta studentesca a farci scoprire il termine “terceirista”, che significava che non ci rispecchiavamo in nessuno. Creammo un coordinamento tra i licei, ma rimanendo autonomi. Fu importante, perché loro erano un’organizzazione strutturata».
Che intende?
«Avevano un centro librario molto ricco. E in più una casa editrice che pubblicava libri che in Italia erano introvabili, come i testi di Celine e La Rochelle. E c’era anche qualcuno che suonava. Per me questo fu molto importante, perché mi fece scoprire che a fare musica non erano soltanto gli hippie, ma anche chi la pensava come me. Mi sentii a mio agio».
E quando nasce ufficialmente Terza posizione?
«L’anno successivo. Molti dei ragazzi erano usciti da liceo. Alcuni avevano proseguito gli studi, altri avevano iniziato a lavorare. E così decidemmo di fare qualcosa che andasse oltre le mura scolastiche. Da quest’idea è nata Terza posizione».
Politicamente come vi consideravate?
«Noi ci siamo sempre considerati anti-antifascisti. Vede, prima le ho detto che davanti all’entrata c’erano gli attivisti di entrambi gli schieramenti che facevano volantinaggio. Gli antifascisti mi sono sempre sembrati più numerosi, più arroganti e più aggressivi. Noi il fascismo non lo abbiamo mai conosciuto, né a scuola né a casa».
Quindi non vi siete mai considerati fascisti?
«Mai. La tarantella su questo va avanti da quasi cinquant’anni. Ricordo che nel 1980 Paolo Guzzanti mi intervistò su La Repubblica in quanto rappresentante di Terza posizione, chiedendomi la stessa cosa. E io risposi esattamente come faccio oggi. Sa che cosa proposi come simbolo del movimento?».
Cosa?
«Un ornitorinco (ride, ndr). A me sembrava un’idea pazzesca, ma nessuno mi filò».
Perché un ornitorinco?
«Era il simbolo perfetto. Nessuno pensa che possa esistere un animale con il becco, oviparo e marsupiale, che ha le zampe da anatra e il pelo da castoro, ma invece esiste. Noi eravamo la stessa cosa. Purtroppo, il problema era che avremmo dovuto spiegare a tutti cosa era un ornitorinco. Diciamo che avrebbe ridotto la nostra capacità di attrazione».
Rimaniamo agli inizi di Terza posizione. Nell’ottobre del 1978 Nanni viene accoltellato dopo che avevate fatto volantinaggio. Racconti quel giorno.
«Dopo il volantinaggio io ero rimasto a casa di un’amica insieme ad altri del gruppo. Nanni, invece, era andato a prendere l’autobus per tornare a casa. Dopo un po’, qualcuno venne a bussare, dicendo che era successo qualcosa. Quando siamo arrivati sul posto, abbiamo chiesto informazioni e uno ci ha detto: “Sì, hanno accoltellato uno coi capelli a Pagoda. Si chiama Giangi, o Gianni, non ricordo...”. A quel punto ho capito che era mio fratello».
Ha avuto paura?
«No, per niente. Poteva accadere, lo sapevamo. Nessuna crisi irrazionale, perché non c’era bisogno di chiedersi perché era successo. Le domande erano “quanto è grave?” e “chi è stato?”».
Andò con lui in ambulanza?
«No, lo raggiunsi poco dopo, perché ci fu un contrattempo. Lì dove avevano accoltellato Nanni erano arrivati anche dei fascisti. Soltanto che, vedendoci vestiti male e con i sandali, pensavano che fossimo compagni. La polizia si è messa tra noi e loro e si è alzata la tensione. Io, però, me ne sono andato subito da lui. Che sopravvisse».
Conferma che nel luogo dell’accoltellamento è stato ritrovato il documento dell’attivista di Autonomia operaia Valerio Verbano, ammazzato due anni dopo?
«Io questo documento non l’ho mai visto. Ma nessuno di noi conosceva il ragazzo. Quando morì, ci chiedemmo tutti chi fosse».
È vero che i genitori di Verbano pensavano che fosse stato lui a imbavagliarli e ad aspettare il figlio a casa per ucciderlo e che quindi lo chiamarono per incontrarlo?
«Sì, avevano il sospetto che lo avesse fatto per vendetta dopo la storia della coltellata. Dopo la chiamata, Nanni mi disse di temere che i suoi amici potessero tendergli un agguato e decise di andare da solo, per non coinvolgere altri. Ma appena arrivò fu subito chiaro che non poteva essere il responsabile».
Perché tanta sicurezza?
«Semplice. Nanni si era rotto ulna e radio: aveva il braccio completamente ingessato. Il padre lo capì e allora, dopo avergli parlato, lo scortò fuori casa tra gli amici del figlio, fino a quando non fu al sicuro».
Tutto questo accade nel 1980, un anno fondamentale nella sua storia e in quella dell’Italia.
«Sì, quello è stato l’anno in cui tutto è andato allo scatafascio, quello in cui è morto Nanni».
Si ricorda dov’era il 2 agosto, giorno della strage di Bologna?
«Ero con due amici, squattrinati quanto me, a bordo di un traghetto diretto verso la Maddalena. Quando ci fu lo scoppio, non si capì subito a che cosa fosse dovuto. Io ero tranquillo, non pensavo che la cosa ci avrebbe potuto riguardare in alcun modo, perché non c’entravamo nulla (sospira, ndr). Avevo torto, però. Uno di questi due amici fu profetico quando mi disse: “Se lì è scoppiata una bomba sono fatti nostri”».
Aveva ragione.
«Io ero abbastanza tronfio e indottrinato da essere sicurissimo di essere “altro” dal fascismo e dagli ambienti che in passato avevano fatto queste cose. Ero fiducioso che la magistratura non ci avrebbe preso nemmeno in considerazione. Ma poi il 28 agosto arrivarono i primi mandati. In maniera completamente casuale scelsero 28 nomi, tra cui c’erano Roberto Fiore e Gabriele Adinolfi, due dei nostri inseriti in una lista in cui non c’entravano nulla».
Terza posizione come reagì?
«Ci chiudemmo a riccio, perché sapevamo che a quel punto sarebbero venuti anche da noi. E infatti andò così, il 23 settembre arrivò un’altra ondata di mandati, questa volta con il mio nome e quello di mio fratello».
Eravate pronti a tutto ciò?
«Ce lo aspettavamo. Ero andato da mia nonna, Nanni era a casa ma riuscì a fuggire. Però arrestarono la mia fidanza incinta. E pensare che lei mi chiese pure di dormire insieme quella notte (ride, ndr)».
E poi?
«Abbiamo cominciato la nostra latitanza, ognuno per le sue, ma rimanendo sempre in contatto. Poi il 4 ottobre lo arrestarono e il giorno dopo tornai a casa. Ero anche di buon umore».
Come mai?
«Perché la prigione mi sembrava la cosa minore. Ancora una volta ero stupidamente ottimista: pensavo che nel giro di sei mesi si sarebbe risolto tutto. Bisognava soltanto aspettare che venisse confermata la nostra estraneità ai fatti. Tutti parlavano di clandestinità ma a me sembrava inutile. Mi preoccupai molto di più quando scoprì che era stato portato agli arresti ospedalieri dopo essere stato pestato».
Poi cosa successe?
«In ospedale normalmente dovrebbero curarti. E invece lui fu spedito in isolamento che era sostanzialmente incapace di intendere e di volere. Indossava soltanto i jeans, non aveva nemmeno le calze. Quel giorno lo trovarono impiccato».
Il suicidio è la versione ufficiale: lei ci ha mai creduto?
«Francamente, mi è sembrato difficile crederci allora ed è difficile crederlo anche oggi».
Facciamo un passo in avanti. Qualche anno dopo la morte di Nanni, il corpo è stato trafugato e cremato. Parte delle ceneri sono state sparse dai suoi amici sul Gran Sasso, parte sono state restituite a vostra madre. Sapeva di tutto questo o l’ha scoperto dopo?
«No, lo sapevo. Ed ero d’accordo».
Perché sul Gran Sasso?
«Per il legame tra sangue e terra, il rapporto della nostra famiglia con questo posto. Volevamo restituirlo al luogo a cui appartiene».
Ritorniamo a quell’ottobre del 1980. Dopo i fatti accaduti a Nanni, lei cosa ha fatto?
«Era chiaro che mi dovevo levare di torno. Sono stato un anno a Parigi e poi mi sono diretto a Londra, perché da un giornalista mi era arrivata voce che fossero stati localizzati dei ricercati italiani e che l’Interpol era pronto a prenderli. Decisi di andare lì per avvertirli. Sa come andò a finire?».
Come?
«Bussai alla porta, ma non mi aprirono loro. Ad aspettarmi c’era solo la polizia, che mi aveva anticipato. E così finì in carcere in Inghilterra».
Quanto tempo è stato in carcere?
«Per 6 mesi. Una volta uscito, ho vissuto a Londra per 9 anni. Poi ho deciso di tornare a casa, perché volevo ricominciare a fare politica».
È tornato in Italia nonostante fosse ancora ricercato.
«Sì. Pensavo che con l’indulto sarei rimasto poco in carcere. Ma alla fine ci ho passato 3 anni perché, nonostante ci avessero riconosciuto di non aver fatto niente, ci diedero l’aggravante del terrorismo, l’accusa più infamante che potessimo subire».
Dopo il carcere, però, è iniziata una nuova vita, tra giornalismo e politica.
«Gianni Alemanno è stato fondamentale. Ai tempi era il guru del Fronte della gioventù. Mi invitò a un campo scuola dicendomi che dovevo conoscere questi ragazzi della nuova generazione. Come le ho detto, sono tornato per fare politica e sono andato in carcere per provare a scrollarmi di dosso le stimmate di quel periodo, ma per l’ennesima volta sono stato troppo ottimista, perché non se ne sono mai andate».
Per gli abruzzesi se ne sono andate. Qui è stato eletto due volte: nel 2006 al Senato e nel 2008 alla Camera dei deputati.
«È vero. Qui sono stato eletto e ho avuto anche la possibilità di aiutare L’Aquila dopo il terremoto. Ma anche gli stessi giornalisti, quando praticavo la professione, mi trattavano da collega. Soltanto che poi il mio passato è tornato».
Nel 2023 Rocca l’ha chiamata come responsabile della comunicazione della Regione Lazio. Dopo una bufera mediatica sul suo passato ha deciso di dimettersi. Si è chiesto perché proprio allora e non negli anni precedenti?
«Forse la mia presenza alla Regione Lazio dava più fastidio di quella a Montecitorio. Ma me ne sono andato dalla Regione per mia scelta, perché volevo uscire fuori da questa situazione».
All’inizio dell’intervista le ho chiesto se, tornando indietro, cambierebbe qualcosa del suo passato. Lei mi ha risposto “tutto”. Da dove inizierebbe a cambiare rotta?
«È difficile dirlo, perché cambierei così tanto... Forse tornerei ai 13 anni. Darei ascolto a mia madre e sceglierei l’artistico e non lo scientifico. Un altro liceo avrebbe cambiato le cose».