«Flaiano, non solo battute»

Un grande scrittore, l’importante è non smettere mai di leggerlo

«Ogni giorno di più scopro che per scrivere bisogna vivere e che un’esperienza decisiva può esimerci dall’interesse per molte cose», dichiarava Ennio Flaiano in una intervista apparsa in prima pagina su La Fiera letteraria del 7 dicembre 1952, sotto il titolo: Che cosa fanno gli scrittori italiani. Flaiano dall’ultimo banco.
Vivere, osservando, nel contempo, con occhio sagace e disincantato, come si comportano i nostri simili nella quotidianità. E poi scriverne, sottoforma di appunti, di annotazioni, di promemoria. Flaiano così lavorava, sia per la letteratura che per il cinema. Flaiano, si sa, è soprattutto scrittore del frammento. In un’altra intervista, pubblicata a distanza di vent’anni, il 14 aprile 1972, su Il Mondo, egli affermava: «Sono portato alla nota, allo schizzo giornaliero, alle cose che “dopo” formeranno un volume». Prova ne è la sua produzione letteraria fatta di brani diaristici, di pensieri, di epigrammi. Un’arma che si è rivelata, purtroppo, a doppio taglio: la maggior parte dei lettori lo ricorda e lo ammira senza posa, ancora oggi, specialmente per le sue battute, i fulminanti aforismi, a volte neppure suoi, ma da lui citati, spesso con tanto di fonte.

Flaiano è conosciuto, oltre che per il romanzo «Tempo di uccidere», soprattutto come giornalista, critico cinematografico e critico teatrale. L’esordio nella stampa scritta risale ai primissimi anni Trenta con alcune recensioni letterarie (tra cui i prediletti Anderson e Lawrence) nella rivista Occidente, e, negli anni successivi, fino al 1941, anche con articoli di arte e architettura (per qualche tempo egli frequentò, a Roma, la facoltà di Architettura) in vari periodici romani. La produzione giornalistica sua più vicina al lettore comune, al lettore sensibile, è proprio quella di cronaca e di costume: Flaiano amalgamava una nell’altra con impareggiabile destrezza. Egli è stato un eccellente osservatore dei comportamenti, dei vizi e delle debolezze dell’homo italicus, cogliendo nella sua totalità l’epoca in cui visse, guerra e dopoguerra soprattutto, tracciandone abilmente i segni generali e particolari, centrando sempre il bersaglio.

I primi suoi articoli di questo genere apparvero sul mensile Documento dal maggio 1941 al gennaio 1942 sotto la rubrica Cronache e firmati con uno pseudonimo (Lelio) proprio perché in tempi tanto difficili, in periodo di guerra e di dittatura fascista, occorrevano prudenza e ponderatezza. Non firmati, uscirono poi i pezzi di cronaca del Risorgimento liberale, nelle rubriche Carta bianca (dal giugno 1944 al febbraio 1945) e Album romano (dal novembre 1944 all’agosto 1945). Mi soffermerò su alcuni di questi pezzi, piccole inestimabili tessere della vita quotidiana di quel tempo, puntando la lente su quelli apparsi in Risorgimento liberale evitando qualsivoglia analisi storico-filologica e considerandoli semplicemente per ciò che sono: uno spaccato di vita vissuta dagli italiani, giorno dopo giorno, alla vigilia della Liberazione e subito dopo, una sorta di reportage diaristico.

Gli articoli di Carta bianca sono 26, di cui 6 inediti, e per inediti intendo articoli apparsi una volta in periodico e poi mai più ripresi né in volume né in rivista; quelli di Album romano sono invece 55, di cui 25 inediti. A unire idealmente tutti questi pezzi è l’osservazione di Flaiano, ricavata da uno di essi (La terra promessa, 14 luglio 1945, poi ripubblicato in volume): «la nostra immaginazione non raggiungerebbe (...) le alte vette che oggi sono proprie della realtà quotidiana». Sono piccole perle di cui vale la pena, per un momento, occuparsi un po’ più da vicino, prestando orecchio alla voce fuori campo di Flaiano. Osserviamo, per esempio, l’inversione di ruoli ne «Le aggressioni sbagliate» (2 novembre 1944) in cui un pensionato sessantenne, non avendo nulla da consegnare a un ladro che voleva rapinarlo per strada, si vede regalare da questi dopo aver bevuto ed essersi amichevolmente intrattenuti in un’osteria a spese dello sconosciuto malvivente anche una banconota da mille lire.

Da rapinatore a benefattore, ma qualcuno nell’osteria denuncia il ladro. Conclude amaramente e ironicamente Flaiano: «Quanto ai pensionati si facciano coraggio. Questa storia, ripetiamo, non è inventata. Da cinque mesi a questa parte una sola persona si è occupata seriamente della loro categoria. Questa persona è un ladro. E, purtroppo, è stato assicurato alla giustizia». Ogni articolo trae spunto da un evento di cronaca attentamente riferito, fase che però non si limita però alla semplice esposizione dei fatti, come, ad esempio, nel pezzo intitolato «La generazione buona» (30 giugno 1945) che denota l’ormai totale mancanza di passione nei giovani poiché sfogliando la cronaca nera dei vari quotidiani «la totalità dei delitti, degli intrighi, dei suicidi, delle vendette, insomma delle risoluzioni violente, è a carico di persone che hanno da tempo passata la prima giovinezza (...).

I giovani non hanno trasceso. Mentre gli anziani hanno fatto e fanno tuttora questioni d’onore e di gelosia, i giovani hanno dimostrato di aver appreso la cinica lezione degli ultimi anni, dando un apporto assai modesto alla cronaca: trascurabili liti di interesse, qualche ferimento, ma niente di grave, niente di passionale che abbia servito a tener desta per qualche giorno l’attenzione dei lettori. I giovani si risparmiano». Oppure ancora, con «Libertà di scherzare» (20 luglio 1945), l’umorismo che salva dal fascismo, come spiega, cristallino, Flaiano: «gli italiani s’erano, nei vent’anni, difesi dalla dittatura coprendola di ridicolo; tanto che Mussolini considerò sempre gli umoristi come suoi nemici personali e, lui al potere, quelli dovettero adattarsi nei libri e sui giornali a un umorismo apolitico.

E sparirono di conseguenza le caricature, le satire e ogni polemica scherzosa contro cose o contro persone», o l’ironia sulle modifiche dei nomi dei giornali per slegarli dal fascismo con l’epilogo che «tutto sommato, (...) ci accontentiamo con poco. Chi ha detto che gli italiani sono incontentabili? Noi siamo inesorabili soltanto nelle minuzie, tutto il resto non conta. Dirò che saremmo persino disposti a un’altra dittatura purché cambiasse titolo». Infine, tra i pezzi cosiddetti inediti, non accolti, dunque, finora, nei Classici Bompiani in quanto «occasionali o troppo legati a fatti di cronaca» ne cito, da ultimo, uno per tutti (dalla rubrica Carta bianca, 12 agosto 1944) a proposito dei dialoghi sul re e la monarchia che, dal generale: «Io penso che da noi un re è anche necessario per alcuni riti: rivista dello statuto, consegna delle onorificenze, inaugurazioni e patronali.

Un re è poi addirittura indispensabile per dire a tutti una buona parola quando visita i sanatori» vanno al particolare: «Il Re Galantuomo non amava la musica. I suoi biografi, anzi, dicono che la odiasse, considerandola in blocco un insopportabile frastuono. Egli stesso precisava: “io distinguo soltanto due arie: una è la Marcia reale e l’altra non lo è”. Sembra che questo difetto sia ereditario nei Savoia. Io mi auguro che lo sia; spiegherebbe ogni cosa».

Ognuno di questi pezzi, a suo modo, è significativo poiché, come esordisce Flaiano in uno di essi (Pagine perdute, 10 luglio 1945) «Pur troppo le notizie più belle di questi anni colmi di avvenimenti vanno a finire nel cestino. I giornali dispongono di poco spazio ed è ormai invalsa la triste abitudine di dedicarlo alle notizie serie: tutte le altre restano fuori; ed è peccato se si pensa che i posteri si faranno una ben povera idea della nostra immaginazione.» Anche grazie a Flaiano i posteri potranno godere in eterno della fantasia e della creatività italiana: i suoi scritti sono la testimonianza più viva e palpabile che potesse lasciarci. L’importante è non smettere mai di leggerlo e, soprattutto, non fermarsi soltanto a citarne, magari erroneamente, le battute.

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