Nel Paradiso del Gran Sasso, l’editoriale del direttore: “Vi racconto il Piccolo Tibet”

5 Giugno 2025

Devo confessarvi una debolezza, ho già voglia di tornare: questo paesaggio provoca dipendenza, peggio di una droga non tagliata

L’AQUILA. Ho visto (sul Gran Sasso) cose che voi umani non potete nemmeno immaginare. Dovremmo pensare di raccontare questo parco come se fosse il museo del Louvre della natura italiana. Dovremmo spiegare al mondo che la flora, la fauna e la rete idrica che attraversano questa porzione incantata del Gran Sasso sono come delle istallazioni d’arte dentro la più pregiata delle gallerie di Parigi. Dovremmo paragonare l’incanto delle mille località di questo parco allo splendore dei grandi capolavori senza tempo da mettere in cornice, e recensirli come potrebbe fare un critico estasiato davanti ad un’opera di Leonardo, Picasso o Van Gogh.

Vorrei visitarle tutte e raccontarvele tutte, le meraviglie del parco, ma forse non basterebbe una vita: così ne scelgo una sola ma folgorante, da immortalare in un capitolo, le altre descrivetemele voi. In attesa delle vostre candidature, ecco dunque il quadro che mi porto dentro, la mia Gioconda. L’ho scoperta solo due settimane fa, dopo una pantagruelica mangiata domenicale a Farindola: parlo del cosiddetto “Piccolo Tibet”, un sentiero inciso come se fosse cesellato nel sogno, uno spettacolo stupefacente come se fosse la rappresentazione di un paradiso in terra.

Mi spiego. Erano le cinque del pomeriggio, dovevo tornare verso L’Aquila. Avevo partecipato ad un onorando sontuoso nella campagna di Case bruciate: salsicce di fegato al peperoncino tritato cucinate alla brace, arrosticini come se piovesse, tutto annaffiato con il vino del sindaco di Farindola Luca Labricciosa, e un rosso Montepulciano, il Viola di Mastarò, un vino di color rosso porpora, così intenso che pareva inchiostro. Chi conosce sapori e colori della cucina abruzzese, può capire che si esce da questi banchetti sempre un po’ brilli, ma volendo più bene al mondo. E invece Sandro, il nostro ispettore della diffusione, mi dice: «Perché per tornare non passi per Campo Imperatore? Non ti dico nulla, vale la pena». Bene, ero salito a Farindola salendo da Penne, giro la macchina verso la vetta, mi preparo a scalare la montagna sulle mie quattro ruote motrici.

Prima tappa del viaggio: l’escursione termica. Venivo dalle braci, mi ritrovo a finestrini aperti a respirare in una faggeta piena degli odori e delle resine della foresta. Dal caldo pre-estivo di Farindola, ci eravamo ritrovati improvvisamente avvolti in una freschezza senza tempo. Un tornante dopo l’altro, come annodando un nastro di seta intorno alla vetta, dove la vegetazione sembra voler inghiottire la striscia di asfalto della strada come la piante carnivore fanno con i moscerini molesti.

Secondo tappa: l’arrivo in vetta. Ebbene, qui non basterebbe un intero vocabolario, per descrivere ciò che si vede con le parole. Questo spettacolo può essere solo visto: la sua bellezza non può essere racchiusa un video, la sua potenza non può essere confinata nella prigione rettangolare di una inquadratura fotografica. Passata la vetta, cambiato il versante, non appena fuori dal bosco la strada inizia a scendere e ci si trova proiettati verso Campo Imperatore, stretti nel cuore di un altopiano, con le vette innevate alla propria destra, con i canaloni pieni di ghiaccio che attraversano la montagna esplodendo come arterie, monili bianchi di neve immersi in un grande mare verde. È l’erba: le tre dimensioni non bastano a contenere tutti questi elementi primari, perché il colore ti assale e ti balla davanti agli occhi.

Mi hanno raccontato che questo luogo, giustamente ribattezzato piccolo Tibet non è sempre così. Tommaso Navarra, presidente del Parco del Gran Sasso, uno che lo conosce così bene da essere destinato a diventare un folletto (alla fine del suo mandato, per fortuna) sostiene che questo scenario è sempre diverso, a seconda di quando lo si attraversa: quest’anno ha piovuto molto, e per questo la tonalità dell’erba sembra presa dalla tavolozza di un pittore impressionista, una tinta da cartone animato, quella che vedono i bambini quando devono colorare gli album di esercizi. Due anni fa - per esempio - la nota dominante era quella del giallo, annate diverso come gli champagne millesimati. Talvolta questi spazi millenari che sembrano non contemplare l’esistenza dell’uomo virano verso le tonalità delle foglie morte.

Quando si è dentro questo paesaggio, e si guida, seguire la strada è come ballare un lento abbracciati alla natura: ci si sente piccoli e felici, un’astronave di umani incastonata nel grande cuore della montagna. Quando sono passato io – due domeniche fa – non c’era quasi nessuno: qualche ciclista fluttuante, la macchina parcheggiata a bordo strada di una o due coppie di fidanzatini disperse per prati, il Corno Grande, la vetta più alta dell’Appennino, che ci sorveglia come se fossimo formiche, con al collo la sua corona di ghiacciai senza tempo: questo fazzoletto di colore, incastro nella materia più incantata del pianeta, è largo cinque chilometri ed è lungo cinque. Ma non è uno spazio, è un tempo: quella che si impiega a percorrere questo ghirigoro di asfalto in mezzo a rocce e prati non passa per una misura metrica, ma è il frutto di una dimensione estatica. Quando alla fine del tragitto si arriva al paese, è come tornare a terra dopo aver ballato in mezzo agli angeli.

Devo confessarvi una debolezza, ho già voglia di tornare: questo paesaggio provoca dipendenza, peggio di una droga non tagliata. Tuttavia non credo di essere stato sotto l’effetto di nessuno stupefacente, sempre ammesso e non concesso che il peperone ferfellone abbruscato e la salsiccia arrostita di fegato al peperoncino tritato di Farindola non lo siano. Se siete tra coloro che andranno nel piccolo Tibet dopo aver letto questo articolo, se vi arrampicherete nel parco del Gran Sasso dopo aver letto questo supplemento, se avete ritagliato questi articoli di Giustino Parisse, se mentre passate ai piedi del Corno Grande vi sentirete sereni, perché al cospetto dell’assoluto, allora vuol dire che il Centro ha fatto il suo lavoro, ha assolto alla sua missione: raccontare qualcosa che torna utile. Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare: il direttore del Parco mi spiega che quel prato verde che ho attraversato è in realtà il tappeto di gala di un altopiano di origine carsico-alluvionale vestito per la festa.

Ere glaciali per scolpire questo scenario, percorso da un ghirigoro di strada fatata a cielo aperto: venti minuti per attraversarlo. Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare, come l’androide di Blade Runner: non sono raggi gamma, non sono navi in fiamme, non sono i bastioni di Orione. Sono queste sculture naturali sulla vetta dei monti della Laga, un palcoscenico naturale che riposa sopra il più grande polmone idrico della più lunga cantina montuosa del nostro paese, perché l’Appennino è insieme la colonna vertebrale, e lo scrigno della grande Bellezza italiana. In questo forziere senza chiave, ma pieno di gioielli che per fortuna nessuno può rubare, il Gran Sasso è come il più prezioso diamante del diadema. Se ci siete già stati tornateci ora che l’erba è verde, se non ci siete mai stati salite sulla macchina e raccontate quello che avete visto: ma solo a chi lo merita, e a chi vi vuole davvero bene.

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