Gaza exodus, l’editoriale del direttore

Fuggono, ma senza meta, nessuno sa dove, tranne chi spara. L’esercito israeliano ha indotto con le armi, con morti e feriti, una fuga verso il nulla, la strada è asfaltata di sangue e cadaveri
ROMA. Hanno provato a chiamarlo “Esodo volontario”. Ma di “volontario” – nel dramma dei palestinesi di Gaza – da ieri non c’è più nulla, neanche il veleno di una finzione. Definirlo “volontario” è già un crimine. Per giunta “l’esodo” della Striscia non è neanche più “esodo”: diaspora, espatrio – semmai – fuga disperata. La parola giusta, la più grave, è: deportazione. Fuggono con auto cariche come arche destrutturate, con carri fragili, che si fanno gabbie di dolore, con le loro gambe, per chi le ha ancora.
Fuggono, ma senza meta, nessuno sa dove, tranne chi spara. L’esercito israeliano ha indotto con le armi, con morti e feriti, una fuga verso il nulla, la strada è asfaltata di sangue e cadaveri. Ormai non riguarda più destra o sinistra, voi che leggete, io che scrivo. Oggi questa scia di morte disegnata come una ferita nel nulla, parla a tutti quelli che sono ancora umani. Ma non hanno dimenticato di esserlo.
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