L’intervista a Nicola Porro: «Netanyahu all’Onu è stato favoloso. La Flotilla rischia»

Il giornalista a Pescara per l’Abruzzo Economy Summit. E su Israele dice: «Il 7 ottobre è stato l’11 settembre dell’Europa»
PESCARA. Nicola Porro, si sa, è un uomo senza peli sulla lingua. Il giornalista, volto noto di Rete4 dove conduce “Quarta Repubblica” e protagonista della rassegna stampa scorretta “Zuppa di Porro”, fino a due giorni fa era a Pescara per moderare alcuni dei dibattiti dell’Abruzzo Economy Summit. L’accoglienza riservatagli era quella delle grandi occasioni: strette di mano, abbracci e fotografie, come una rockstar. Nella sua chiacchierata con il Centro si lancia a ruota libera su tutti i grandi temi di attualità.
Dalla Global Sumud Flotilla («liberi di fare ciò che vogliono, ma ci metterei un’etichetta sopra, come quella per le sigarette»), alla battaglia contro la cultura woke combattuta da Donald Trump, un «antibiotico necessario contro questa malattia», Porro ne ha per tutti. Il bersaglio preferito, però, rimane lo Stato. È il suo sistema di welfare la causa della mancata crescita dell’Europa negli ultimi anni. La cura? Tagli alla spesa pubblica «con l’accetta». Anzi, con la motosega, in stile Argentina. Di più: c’è da augurarsi «una riforma sociale e culturale, che faccia tornare lo Stato alle sue funzioni fondamentali», perché «al resto ci pensa la società».
Porro, partiamo dall’Abruzzo. Era a Pescara nelle vesti di moderatore per il summit regionale sull’economia: viene spesso qui?
«Sì, e per due motivi. In primis, perché è fondamentale muoversi in giro per l’Italia, che altrimenti viene raccontata come se fosse solo Roma e Milano, quando invece è mille regioni, mille posti diversi. E poi perché visitare altre realtà è un modo per uscire dalla propria comfort zone e scoprire ciò che ancora non si conosce. Per esempio, al Summit ho avuto la possibilità di approfondire il tessuto imprenditoriale abruzzese».
Che impressioni ha avuto?
«Mi sembra che il grande tema qui sia quello delle infrastrutture, perché è vero che c’è un’autostrada che funziona bene, ma non è sufficiente. Servono aeroporti e treni che funzionano. In questo settore è l’offerta che fa la domanda: se i servizi ci sono, la gente li usa».
Ha moderato un evento sostanzialmente istituzionale. Ma non è che ha cambiato idea sul ruolo dello Stato?
«Assolutamente no. Rimango convinto che sia un carrozzone. Sia chiaro, non perché metto in dubbio la professionalità dei dipendenti pubblici. Sono un libertario, un estremista dello Stato minimo».
Spieghiamolo meglio.
«Il sistema privato di incentivi è impareggiabile. Per me la società dovrebbe potersi gestire da sola, mentre lo Stato deve essere limitato a fare poche cose, ma molto bene. Deve regolare, deve controllare, ma non deve fare».
Detto in termini più concreti?
«Puntare sui tre principi fondamentali dello Stato: giustizia, difesa dei confini e ordine interno».
Questo è il manifesto del presidente argentino Javier Milei, un anarcocapitalista.
«Infatti l’ho ospitato due volte nel mio programma e ho scritto anche la prefazione del suo economista e consulente economico Huerta De Soto. Però, guardi, la mia è un’idea difficile da catalogare. Sono in minoranza tanto a sinistra – ovviamente – che a destra».
Perché?
«A destra esistono sacche di resistenza fortissime, anche perché tutto ciò trova una declinazione nella vita privata, cioè nei diritti civili. La parte libertaria liberale è in minoranza assoluta».
Tagliare la spesa pubblica, welfare incluso, non significa rinunciare alla tradizione dello Stato assistenzialista europeo?
«Abbiamo costruito un sistema di welfare straordinario, il più avanzato e costoso del mondo. E sa qual è stato il risultato?».
Dica.
«Negli ultimi 50 anni non siamo riusciti a creare situazioni di ricchezza superiori agli altri Paesi. Non siamo in grado di accogliere gli immigrati come hanno fatto gli Stati Uniti per 50 anni, cioè creando nuovi posti di lavoro, né abbiamo ritmi di crescita come quelli dei Paesi asiatici, dove il welfare è assente. Di questo passo, in 20-30 anni il sistema scoppia».
È finito il tempo delle politiche assistenzialiste?
«Secondo lei, possiamo permetterci di accogliere 20-30 milioni di immigrati e fornire loro lo stesso welfare che abbiamo noi? E ai ragazzi che oggi hanno 14-18 anni possiamo offrire lo stesso sistema dei loro genitori? Ci lamentiamo degli stipendi bassi in Italia, ma il 50% va a sostenere tutta questa baracca».
Da dove si parte per cambiare lo Stato?
«Chiaramente, dai tagli con l’accetta alla spesa pubblica. Ma io sono radicale: bisogna pensare a una riforma culturale e sociale profonda, che faccia tornare lo Stato alle sue funzioni fondamentali, quelle che paradossalmente oggi funzionano peggio. La giustizia va malissimo, la sicurezza uguale. E guardi che a pagare le conseguenze di tutto ciò non sono i più ricchi, ma i più poveri, chi vive nelle periferie e non ha alternative».
Sono milioni le persone che contano sui sussidi statali o altre forme di sostegno.
«È impossibile non essere d’accordo con l’aiutare chi è più svantaggiato, ma il discorso è un altro. Lo Stato deve pensare prima di tutto a fare lo Stato. La società si organizza come vuole».
Spieghiamolo meglio.
«Settant’anni fa la società si organizzava come famiglia, oggi non lo fa più, ma ci sono altre forme. Pensi ai giovani: oggi preferiscono lavorare in aziende che garantiscono servizi di welfare come asili nido, flessibilità lavorativa, congedi di maternità, paternità e quant’altro. Soluzioni fantastiche che, però, sono offerte dai privati, dalla società che si organizza. E non dallo Stato che mi toglie soldi dallo stipendio per un sistema che non è neanche detto che voglia».
Insomma, lo Stato oggi non le piace.
«Se lo ricorda il film “Bianco, rosso e Verdone”? Io mi sento come Magda, che si chiude in bagno a piangere perché non riesce più a sopportare il marito Furio (interpretato da Verdone, ndr). Ecco, io mi sento come lei. E lo Stato è Furio (ride, ndr)».
Oggi ha posizioni molto nette, ma ha iniziato la sua carriera come portavoce di Antonio Martino, storico liberale. Da allora si è radicalizzato?
«Da quando ho iniziato a leggere i primi testi di scrittori e filosofi libertari, cioè 30 anni fa, la situazione è sempre peggiorata. Solo che l’abitudine è un potentissimo isolante, non ti fa accorgere di quello che accade».
Lei è molto drastico.
«Ma lo vede il mondo in cui viviamo oggi? Un mondo che mi obbliga a fare la certificazione energetica al mio appartamento anche se non me la posso permettere che mi dice come mi devo vestire, dove devo andare, cosa devo mangiare, cosa mi posso e non posso fumare. La situazione, ripeto, peggiora ogni giorno di più».
Il momento più anti-libertario di questi ultimi 40 anni?
«Sicuramente il Covid. L’idea che per uscire dovessi mostrare un cartellino o chiedere il permesso mi faceva andare fuori di testa. E non c’entra niente con i no-vax, perché sono a favore della scienza».
Quindi non ce l’aveva con l’obbligo vaccinale?
«Non in sé. Ciò che mi premeva era la questione della libertà. Penso che sia stato un periodo degno di Orwell, in cui abbiamo vissuto una sorta di involontario esperimento sociale che ha stabilito che, se ci troviamo in una grande emergenza, gli esseri umani possono essere controllati. Una cosa mostruosa».
Nel 2022, dopo l’emergenza Covid, ha votato Meloni?
«Non dico chi ho votato. Ripeto che sono un libertario difficile da catalogare. L’ultima tessera l’ho avuta a 15-16 anni».
A che partito si era iscritto?
«A Gioventù liberale. Mi ricordo che c’era il doppio tesseramento con i radicali».
Si può essere liberali, libertari e conservatori allo stesso tempo?
«Credo che siamo tutti figli delle nostre tradizioni. Non si possono cancellare. Le faccio un esempio».
La ascolto.
«Non sono contrario al crocifisso nelle scuole. Eppure, sono un libertario che pensa che tu possa credere anche che la Terra sia piatta, perché la cosa non mi riguarda. Ma quel simbolo è un pezzo di quella tradizione di cui sono figlio anche io. E questo non si può eliminare».
Pensa che il governo Meloni sia liberale?
«Per uno che la pensa come me, no, questo governo non ha non ha chiaramente il Dna liberale».
Passiamo alla politica internazionale: che ne pensa della Global Sumud Flotilla diretta verso Gaza?
«Mi fa venire i nervi. I partecipanti sono ovviamente liberi di prendere le loro barche, barchette e transatlantici e andare verso Gaza, ma dovrebbero fare come con il tabacco».
Che intende?
«Serve una bella bandiera su ogni barca con scritto “Nuoce gravemente alla salute”, come sui pacchetti di sigarette. Solo che in questo caso la salute in gioco è quella dell’unica democrazia esistente in Medio Oriente. In giro non parlo quasi più di questo tema, perché so di essere tra i pochissimi non ebrei con una posizione radicale su questo, ma per me il 7 ottobre è stato un evento straordinario, un attacco non solo contro Israele, ma contro l’intero Occidente. È l’11 settembre dell’Europa».
Anche la loro sicurezza è a rischio: Crosetto ha inviato una fregata nel caso in cui abbiano bisogno di soccorso. È d’accordo con questa scelta?
«Dal punto di vista ideale, dico che è stata una scelta sbagliata, perché a questo punto anche io vorrei essere scortato quando vado alla stazione centrale di Milano e mi trovo quei cretini di manifestanti che non mi fanno entrare. Dal punto di vista politico, però, è stata una mossa geniale: il governo può dire di aver fatto tutto il possibile per evitare che succeda ciò che inevitabilmente succederà quando violeranno il blocco navale».
Cosa pensa che succederà?
«Un gran casino. Il fatto è che non hanno capito che gli israeliani non scherzano. Sono 9 milioni di persone che combattono per la propria vita, a cui non frega nulla che sulla Flotilla ci siano italiani, tedeschi spagnoli. Fanno quello che pensano di dover fare».
Ci sta girando intorno: come potrebbe reagire Israele alla violazione del blocco?
«Nella migliore delle ipotesi li fermano con le brutte e arrestano tutti. Ma questo succede se le cose finiscono bene. Il fatto è che nelle zone di guerra si spara. E quella, per gli israeliani, è una zona di guerra».
Come giudica il discorso di Netanyahu all’Onu?
«È stato favoloso. A partire dal codice qr per ricordare i fatti del 7 ottobre. Ha fatto bene: non dobbiamo mai scordarcene. Detto questo, ci possiamo chiedere se Netanyahu e il suo governo abbiano fatto bene a rispondere in questo modo. Ciò che è accaduto allora, però, non si può cancellare».
Qual è il suo giudizio sull’operato del governo israeliano?
«Non sono in grado di darlo, pur sapendo perfettamente che ciò che sta accadendo a Gaza è un dramma mostruoso, inenarrabile».
All’Onu Netanyahu ha fatto capire che la guerra contro Hamas è una guerra combattuta anche contro i nostri nemici, cioè il fondamentalismo islamico. Ma il fanatismo religioso non è anche dentro il suo governo?
«Ora dirò qualcosa che piacerà ancora meno agli anti-israeliani, ma penso che quello che sta succedendo non sia colpa dei fondamentalisti. Sono ancora i laici a guidare il governo e il Paese. Certo, quella degli estremisti è un’influenza che cresce ed è pericolosa. Dovremo preoccuparci se prenderanno il sopravvento, ma oggi non siamo arrivati a quel punto».
Se non è il fanatismo a guidare l’azione del governo di Gerusalemme, cosa è allora?
«È l’idea di non accettare trattative, che è tipica anche della parte laica del Paese. Guardi, voglio dirle una cosa».
Prego.
«So benissimo che difendere Israele in questo momento equivale a dire di essere favorevole alla morte di un bambino – un’idea chiaramente folle – ma per me è vero che Israele sta combattendo anche in nome dell’Occidente. Esattamente come stanno facendo gli ucraini».
Anche l’Ucraina combatte per noi?
«L’Ucraina è uno Stato europeo che è stato invaso. Questo è l’assunto di partenza. Noi possiamo giudicare Zelensky, criticare le scelte della Nato negli scorsi anni eccetera, ma bisogna stare attenti a ciò che si dice. Sono passati 3 anni e loro continuano a combattere. Se per loro non fosse una questione vitale, si sarebbero già arresi e tornati alla “grande madre” Russia. Ma non è questo che gli ucraini vogliono».
Quindi è a favore della guerra a oltranza?
«No. Un conto è il discorso ideale che faccio da giornalista, un altro è quello della politica. Serve un ritorno alla Realpolitik e trovare un accordo, perché così non si può continuare».
Come si è mossa l’Unione europea nel conflitto ucraino?
«Ha fatto delle aberrazioni. I pacchetti di sanzioni, il mancato dialogo con Putin. Da quando mondo è mondo si parla con lo Stato aggressore. È così che si risolvono i conflitti».
E Trump? Aveva promesso di risolvere il conflitto.
«Devo ammettere che sono rimasto deluso. Dopo Anchorage, pensavo che si sarebbe fatto davvero qualche passo in avanti verso la pace. Mi sono sbagliato».
È deluso in toto da Trump?
«No. Ad Anchorage si è fatto mettere nel sacco. Questo è vero. Per il resto, però, è stata una risposta straordinaria a 20 anni di cultura woke, la malattia mostruosa che ha colpito l’Occidente. Trump è il suo antibiotico. E gli antibiotici, quando li prendi, non ti fanno stare bene».
Quali sono gli effetti collaterali di questa cura?
«Ripeto, ha avuto il merito di rompere quel conformismo assurdo del woke, ma bisogna evitare che generi la stessa malattia che doveva curare».
Intende un nuovo conformismo?
«Se crei una cultura woke al contrario, dove in tv possono andare solo i conduttori di destra, dove se non sei allineato rischi il posto, siamo punto e a capo. Se la reazione è uguale e opposta a quella che volevamo evitare, allora siamo in guai seri».
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