Pasolini, visioni italiane di un eretico: l’editoriale del direttore

2 Novembre 2025

Lo scrittore, a 50 anni dalla sua scomparsa, ci manca per la fantasia e il coraggio spericolato di chi ha raccontato il Paese senza paura delle contraddizioni

ROMA. Il tempo, grande scultore, emette sempre le sue sentenze con chirurgica esattezza: e a mezzo secolo di distanza dalla sua morte nel mistero della drammatica e oscura notte di Ostia, possiamo dire con certezza che il Corsaro ha vinto la sua battaglia fratricida sul Narratore e sul Regista, che convivevano illuminati nel chiaroscuro, dalla luce cristallina del suo talento. Se Pierpaolo Pasolini parla all’Italia di oggi - infatti - se è ancora lo scrittore più citato (spesso a sproposito) e noto degli anni Settanta, se continua ad essere enigma irrisolto, icona potente, e persino rockstar, anche per coloro che non lo hanno mai letto, un motivo evidente c’è: i suoi pamphlet, le sue invettive, i suoi corsivi della felice stagione editoriale, nel Corriere della Sera di Piero Ottone, su L’Espresso e sul settimanale Tempo sono rimasti. Sono discussi, sono letti. Sono venduti.

Le sue grandi visioni apodittiche, la profezia distopica sulla «moderna preistoria» che ci attendeva come una condanna, la sua battaglia contro la civiltà dei consumi, l’esaltazione dell’Italia contadina, il suo grido di allarme per la religione che si secolarizzava, l’intuizione geniale sul «Jeans Jesus della pubblicità che ha cancellato il Gesù dei Vangeli» (sempre negli Scritti Corsari), il racconto civile dell’Italia come Romanzo delle Stragi, sono - prese tutte insieme - un codice prezioso, un alfabeto che circola ancora nelle vene del tempo contemporaneo: il suo ultimo libro, Petrolio, purtroppo incompiuto (un solo capitolo approvato e corretto, il resto è un brogliaccio di partenza, che doveva essere ancora finito e limato) sarebbe stato sicuramente l’acme, la summa di un intero percorso esistenziale e artistico: poco importa se parlasse davvero di Angelo Rovelli e della Sir, o degli Agnelli, o dell’Andreottismo, si capisce bene anche da quella bozza pubblicata postuma da Einaudi, che Petrolio sarebbe diventato il grande romanzo sul potere italiano che ancora oggi manca a questo paese.

Pasolini come un Philip Roth friulano risciacquato nelle acque del Tevere come era accaduto a Dante in quelle dell’Arno. Perché Pierpaolo, autoctono friulano (per anagrafe), ma anche adottato da Bologna (dove aveva studiato), e come ci spiega Alberto Mutignani in queste pagine amico dell’Abruzzo (grazie a Dacia Maraini), era diventato ultra-romano (per vocazione e per scelta). Il cantore delle borgate, di Mamma Roma, del cimitero degli inglesi, il demiurgo di Anna Magnani, Sergio Citti e Ninetto Davoli: che erano la sua santa trinità. Si resta davvero stupiti per la quantità di idee e progetti, per la poliedricità, per la capacità di lavoro e anche di studio rigoroso e duro (leggersi - per verificare - i suoi saggi letterari), ma bisogna dire che i suoi film non sono rimasti nella memoria collettiva: sono importanti, alcuni sono bellissimi e da riscoprire, ma non erano facili, e nell’Italia di oggi sarebbero terribilmente di nicchia. Salò è un film di una violenza visiva e cerebrale che per me, ancora oggi, è insostenibile. Sicuramente datato. Uccellacci e uccellini è un capolavoro di poesia, ma non accessibile a tutti.

I suoi romanzi neorealisti sono per certi versi bellissimi (Ragazzi di vita è anche un saggio antropologico e linguistico su una civiltà scomparsa) ma non parlano più al presente. Ciò che resta sono invece gli Scritti corsari, le riflessioni di una scrittore animato da spirito civile che combatte con la penna in mano per cambiare (in meglio) il suo paese. Questo polemista entomologo spara sui protagonisti, viviseziona i caratteri, dà battaglia per mille cause giuste anche se magari perse: ma più di ogni altro Pasolini resta attuale perché aveva una visione. Aveva capito e descritto dove andava l’Italia - cosa stava perdendo - e quella Italia che lui aveva descritto e immaginato così bene è quella di oggi.

La metafora (anche quella folgorante) del “Palazzo”, intelaiata in una potente architettura letteraria, è ancora vivida e utile, per chiunque voglia continuare sulle sue rotte corsare, nella speranza di scarnificare l’eterna cialtroneria italiana, l’approssimazione di una classe dirigente e di governo sempre terribilmente miope. Il valore dell’opposizione, prima ancora che come concetto politico, come obbligo di resistenza morale al conformismo. È vero che Italo Calvino è entrato nel Pantheon delle letture scolastiche con i suoi romanzi all’insegna della leggerezza, è vero che ci sono scrittori di pochi sfavillanti titoli diventati ormai longsellers, ma nessun autore italiano in questi anni vende tanto come lui, nessuno è rimasto incardinato nel lessico della lingua politica e civile come lui.

Nessuno riesce a stare nell’Italia del terzo millennio sia rilegato, sui comodini degli intellettuali, che tascabile, nei jeans degli studenti. In parte era prevedibile in parte no, perché mentre Pasolini era in vita, la sua identità era declinabile in un alfabeto di ossimori che venivano mal digeriti dal senso comune dei contemporanei: Pasolini comunista ma eretico, Pasolini beniamino dei radicali ma antiabortista, Pasolini profondamente cattolico ma omosessuale, perennemente caustico, polemistico, controcorrente: Pierpaolo è l’intellettuale che restava da una parte della barricata in buona o in cattiva sorte (oggi esaltato come maestro eretico anche da Liberation), ma anche l’unico che poteva permettersi di fustigare gli studenti sessantottini e borghesi di Valle Giulia.

L’unico che poteva stare dalla parte dei carabinieri contro “i figli di papà”, e continuare ad essere glorificato da quelli stessi che aveva scorticato. Avrei voluto citare tanti versi che mi affilano la mente ogni volta in cui penso a lui, tante tacche che ho piantato nella mia memoria (ah, Le ceneri di Gramsci, ah Il pianto della scavatrice, ah, i minatori delle Lettere Luterane), ma mi piace chiudere con il poeta epigrammatico al vetriolo, che mette fine ad una polemica con il critico cinematografico Gian Luigi Rondi con questi versi folgoranti:

Sei così ipocrita, che/ come l'ipocrisia ti avrà ucciso,/ sarai all'inferno,/ e ti crederai in paradiso.

Ecco, a parte sorridere, e compiangere il povero Rondi, un tempo luminare, oggi dimenticato e rimasto negli annali solo per questa invettiva, oggi mi viene in mente che Pasolini non fu mai ipocrita, che ha camminato consapevolmente sul bordo dell’inferno, come tutti i maledetti di talento, e che è di certo arrivato in paradiso (in qualche modo) come tutti i peccatori redenti. Su ogni cosa resta svettante quel verso di prosa l’Io so, degli Scritti corsari, la prima persona dell’accusa, ma anche della responsabilità di cui ci si può e ci si debba caricare quando si va in battaglia contro il peso piombo del senso comune. «Io so, ma non ho le prove», diceva Pierpaolo. Ma vado in battaglia lo stesso perché ho l’obbligo morale di farlo. Nessuna intelligenza artificiale avrà mai tanta fantasia e tanto spericolato coraggio. Per questo Pasolini ci è mancato così tanto, in questo mezzo secolo popolato di piccole mediocrità e di grandi vigliaccherie, e segnato dal rimpianto per la sua assenza.

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