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28 maggio

Oggi, ma nel 1606, a Roma, nello Stato pontificio, in campo Marzio, il pittore rinascimentale Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, uccideva, con un colpo di spada all’inguine, il rivale Ranuccio Tommasoni da Terni, nobiluomo. Il fatto di sangue si verificava al culmine della lite scaturita per un fallo subito durante la partita di pallacorda, sport antenato del tennis moderno.

Il regolamento di conti, a detta degli studiosi di Caravaggio, avrebbe avuto alla base altre questioni: di ragione sia economica che sentimentale. Ma anche conflitti politici, perché la famiglia Tommasoni era sostenitrice degli spagnoli mentre Caravaggio era filo francese. Tecnicamente nella mischia violenta della partita, l’artista, nato a Milano e non a Caravaggio, in provincia di Bergamo, come si presumeva al tempo, era stato ferito. Così quando Ranuccio, rivale in amore come contendente della prostituta Fillide Melandroni, già amata dal pittore, era caduto a terra Caravaggio ne aveva approfittato colpendolo tra le gambe. Il fendente aveva reciso l’arteria femorale e Ranuccio era morto dissanguato (nella foto, particolare del dipinto "Caravaggio uccide Ranuccio Tommasoni", di centimetri 141X209, del romano Guido Venanzoni, del 2020) in un breve lasso di tempo senza neanche essere riuscito a rialzarsi.

L’assalto mortale era avvenuto sotto gli occhi dei testimoni Onorio Longhi e Antonio Bolognese. Per l’omicidio, che diverrà uno dei gialli più popolari della cronaca nera tricolore, il sicario pittore dal temperamento scontroso e dai precedenti penali non limpidi verrà condannato alla decapitazione. Pena che poteva essere eseguita da chiunque lo avesse identificato per strada. Caravaggio, che già in vita aveva raggiunto una discreta fama e che dopo la morte verrà considerato uno dei pittori occidentali più importanti di tutti i tempi, soprattutto per la sua dote tecnica, fuggirà dalla Città eterna la sera stessa del delitto. Subito dopo aver salutato per l’ultima volta la cortigiana Fillide. Lascerà l’Urbe con l’aiuto del principe Filippo I Colonna, che gli consentirà prima di ricoverarsi nel suo feudo di Marino, diffondendo false voci della presenza del pittore in altre città, poi di arrivare a Napoli coperto dal ramo collaterale della potente casata Colonna, quello, ancora più influente, dei Carafa. La condanna alla pena capitale, imposta da Papa Paolo V, influenzerà l’ultimo periodo della produzione artistica caravaggesca poiché nei dipinti compariranno ciclicamente teste mozzate con fiotti di sangue sgorgante.

Il reato verrà riconsiderato e passato da omicidio volontario a colposo, ma spirerà, il 18 luglio 1610, presumibilmente consumato da una infezione intestinale trascurata che gli aveva causato febbre alta, a 38 anni, a Porto Ercole di Monte Argentario, in quel di Grosseto, proprio mentre aspettava che il pontefice revocasse la condanna a morte e concedesse la grazia necessaria per poter rientrare a Roma.