«Dopo il virus forse torneremo a odiarci» 

Il poeta lancianese Giuseppe Rosato si confessa: «Siamo fatti così: non ci lasciamo ammaestrare»

Giuseppe Rosato è forse il più grande poeta abruzzese vivente. Ha 88 anni e vive nella città in cui è nato: Lanciano. Al Centro ha raccontato i suoi giorni del coronavirus.
Rosato, come sta vivendo questi giorni del virus?
Sto a casa, naturalmente. Non soffro molto di questo stare appartato. Per i miei guai di salute già non uscivo più molto. Adesso però non vedo più i figli e i nipoti; c’è mia figlia che sta con me e, dunque, non sono solo.
Che fa durante il giorno?
Da un po’ di tempo, negli ultimi mesi, ho ripreso a scrivere alcune cose in dialetto, cose scherzose, non serie.
Quali?
Recupero parole non più in uso nel dialetto di oggi ma che io ricordo dall’infanzia: detti, proverbi, modi di dire. Mi diverto a riscoprirli.
Legge?
Non leggo molto i giornali: li prendo ogni tanto. Si dice che le letture devono essere edificanti, devono servire a qualcosa. La lettura come passatempo non la considero più. Posso dire, scherzando, che rileggo me stesso, recupero vecchie cose mie eliminando quelle che non servono. Ma devo fare attenzione a non scrivere cose serie (ride, ndr), di quelle che possono dare un po’ di fama e di successo: devo eliminare ogni celebrazione ufficiale dal mio lavoro di scrittore.
Perché?
Perché rischierei di diventare una sorta di poeta “coronato”, e allora, addio: sarei finito prima del tempo (ride, ndr). La verità è che il mondo ha sempre meno bisogno di poeti. Il nostro caro Flaiano diceva che quando la scienza avrà messo tutto in ordine toccherà al poeta di rimescolare le carte.
Succederà questo dopo il coronavirus?
Mi chiedo: dove sta il poeta capace oggi di rimescolare le carte. I sedicenti poeti, oggi, non solo non le rimescolano le carte ma cercano di farsi organici al gioco per ottenere ciò che possono: piccoli successi, qualche premiuccio letterario, una recensione, una postfazione. Quindi, a essere sinceri, oggi si scrivono in versi tante cose, ma la poesia è qualcosa di più grande della scrittura in versi.
Cosa le manca della vita normale?
La possibilità di uscire con mia figlia e di andare a trovare i figli e i nipoti che stanno a Pescara o a Francavilla, di stare a cena con loro, di sentire quello che fanno. Per il resto non ho bisogno di grandi cose. Sono sugli 80 anni e, soprattutto per qualche problema di prostata, più invecchio e più capisco la straordinaria importanza della libertà dal bisogno.
Guarda la televisione?
Poco a volte ci sono troppe chiacchiere. Se non ho il giornale guardo il televideo che io chiamo il Bignami della notizia.
Dove trova consolazione?
Nel rimettermi a guardare le tante cose scritte nel tempo. Mi dico: va bene queste cose le ho fatte, la vita per me ha avuto un qualche interesse.
Cosa consiglia agli altri di fare in questi giorni di isolamento?
Di guardare, per esempio, il quadro di un pittore classico.
Quale, per esempio?
Gli affreschi della Cappella Sistina di Michelangelo, per esempio.
E libri da leggere?
Consiglio di leggere poeti come Montale o Pascoli, un poeta con un’esistenza che non è appartenuta ad altri poeti.
Cosa ci resterà di questi giorni?
L’esperienza che stiamo facendo è così tragica da far pensare che, una volta che ne saremo usciti, dovremmo trarne qualche ammaestramento: cercare di essere più bravi, più buoni. Ma ricominceremo a fare tutto ciò che abbiamo sempre fatto: riprenderemo a odiarci e a fare guerre. È accaduto lo stesso dopo la guerra. Allora mi chiedo: che è venuto a fare questo virus se non ci ha insegnato niente? Non ci lasciamo ammaestrare perché l’uomo è fatto così. L’unica umanità di cui disponiamo è quella a misura d’uomo. Dovremmo lottare per un’umanità a misura disumana. Solo così il mondo cambierà.
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