Memorie di sport, quegli ungheresi in Abruzzo per insegnare il calcio

Negli anni Venti e Trenta giocatori e allenatori della scuola magiara trovarono fortuna nella regione. Ma qualcuno non era neppure calciatore

Un po’ avventurieri e un po’ capitani di ventura, qualche volta millantatori ma anche professionisti destinati a una discreta carriera, in ogni caso gente che sa il fatto suo in mezzo al campo: sono gli allenatori ungheresi ingaggiati nell’Abruzzo degli anni ’20 e ’30, per far progredire i giovani e inesperti footballers della nostra regione. All’epoca la cosiddetta scuola danubiana è una garanzia sul terreno di gioco. Non per niente, solo nel 1929 la Nazionale italiana batte per la prima volta i magiari, dopo due pareggi e quattro sconfitte, tra cui un 6-1 e un 7-1. Il trainer, termine in voga prima che si imponga “mister”, nelle divisioni maggiori è sovente di origine austroungarica, che sia ungherese o austriaco. Perciò gli abruzzesi, che stanno scoprendo il football, pensano che questa sia la strada migliore per ottenere buoni risultati.

A inaugurare la tradizione sono Chieti e Pescara nel 1926-27, dopo due campionati regionali con squadre fatte in casa e senza allenatore.

La Massangioli di Chieti e la Tito Acerbo di Pescara si votano subito alla scuola danubiana, puntando su giocatori di categoria superiore incaricati di svolgere anche il ruolo di allenatore. I teatini arruolano il centromediano Desiderio Szerencse, il cui nome è probabilmente l’italianizzazione di Dezso: è talmente preparato da essere ricordato anche come allenatore dei portieri e, in particolare, di Giovanni D’Urbano, leggendario numero uno abruzzese dell’Anteguerra.

Alla prima amichevole guidata da Szerencse, la Massangioli lascia tutti a bocca aperta battendo l’Anconitana che milita nella massima serie, e soprattutto spiccano le «grandi parate eseguite dall’irriconoscibile D’Urbano, decisamente trasformato dal nuovo tecnico», sottolinea nella sua storia del calcio chietino Rocco Di Tizio, allora ventenne aspirante cronista. Nello stesso anno, pure la Tito Acerbo, primo team “unionista” dopo l’accorpamento tra Pescara e Castellamare Adriatico, si affida a un ungherese: József Bakony, centroattacco reduce da due stagioni proprio con l’Anconitana.

Pur senza aver brillato in patria, i danubiani fanno comunque la differenza. Hanno i piedi buoni e si sono formati in un ambiente che per storia, tradizione ed esperienza è ancora molto avanzato rispetto all’Italia, dove l’Abruzzo è una delle regioni sportivamente meno evolute. Dal punto di vista tattico poi Austria e Ungheria stanno perfezionando il “metodo”, lo schema che farà le fortune degli azzurri di Vittorio Pozzo: non per niente, per aggiornarsi, il tecnico azzurro si sposta quasi ogni fine settimana sulle rive del Danubio.

Come arrivino di solito i maestri ungheresi da queste parti è un mistero. Verosimilmente li portano qui per lo più passaparola e amicizie comuni. Qualche volta forse inserzioni sui giornali, perché di questi tempi calciatori e allenatori si cercano anche così: del resto Hermann Felsner, storico allenatore del Bologna dal 1920 al 1931, viene trovato tramite annuncio su un quotidiano viennese. Molti vengono e vanno senza lasciare tracce su albi e almanacchi, ma solo nella tradizione orale e qualche foto.

È il caso di mister Kopracek, che Antonio Pantaleo cita come trainer del Sulmona per il 1933-34 nella sua pubblicazione sul calcio sulmonese, ma altrove non c’è cenno di lui. Tuttavia, che un mister Kropacek qualsiasi nella nostra divisione regionale diventi un mago del pallone, lo dicono i risultati: il Sulmona si piazza secondo alle spalle del Chieti, che pure ha un tecnico magiaro, Révesz Géza. Le due squadre accedono agli spareggi interregionali per l’ammissione in Prima divisione, che dal 1935 prenderà il nome di Serie C. Chieti non ha fortuna, mentre il Sulmona viene promosso. Dopo il successo, mister Kropacek sparisce nel nulla, e passa il testimone a Lajos Dimény, da poco in Abruzzo per allenare l’Aquila.

Nel capoluogo di tecnici ungheresi ne passano anche di più rinomati, come József Ging quando i rossoblù nel 1934 sono il primo club abruzzese a esordire in B, o András Kuttik che vincerà il primo dei cinque scudetti del Grande Torino.

«Dall’aria sorniona e dal temperamento ironico», scrive Pantaleo di Dimény, «ma anche per lui l’italiano era un tabù: quando un giocatore sbagliava un passaggio o mancava un’occasione clamorosa, lo apostrofava con epiteti incomprensibili, o con l’unica parola parola della nostra lingua che usava per rimproverare i suoi atleti: “barbagianni”».

Ad ogni modo, gli ungheresi hanno sagacia tattica da vendere. La Virtus Lanciano, nel 1929-30 unica abruzzese in un torneo interregionale, ingaggia Antal Mally: autentico giramondo, già a Venezia e Trieste, ha allenato la nazionale lettone, che guiderà di nuovo negli anni ’30 dopo essere passato per Siracusa e Catania. I frentani con Mally lottano a lungo per la promozione in B, fino a quando i problemi economici non costringono la dirigenza al forfait. Solitamente col danubiano si va sul sicuro, ma costa. Quando il Teramo nel 1929 si affilia per la prima volta alla Figc, si mette nelle mani di Armand Halmos. La squadra si piazza seconda nella divisione regionale Marche, perché l’Abruzzo quest’anno non ha un comitato della Figc. Ma nel bilancio del club il trainer pesa parecchio: nella storia del calcio teramano redatta da Elso Serpentini si riferisce che il monte stipendi è di poco superiore alle ventimila lire, e ben 1.800 al mese vanno all’allenatore, con i giocatori che arrivano al massimo a 300 lire.

Se basta annunciarsi come ungheresi per avere una panchina, presentarsi come ex nazionale rende più facili le cose. L’Atessa nel 1932 si affaccia per la prima volta in una competizione ufficiale, e mette sotto contratto József Prayer, che un giornale cittadino assicura essere proprio un ex nazionale ungherese. Di lui però, sulle statistiche della selezione magiara delle quali disponiamo oggi, non c’è menzione. All’epoca purtroppo non è facile verificare certe referenze, ed è difficile smascherare i millantatori o addirittura chi si presenta sotto false generalità anche solo per strappare l’ingaggio di un’amichevole.

Qualche attento cronista tuttavia ci riesce, come ad esempio il corrispondente del periodico L’Abruzzo Sportivo, che nel resoconto di un’amichevole tra Ursus di Castellammare e Virtus di Lanciano del 1925 elenca nel tabellino «Rosso (o presunto Rosso)», specificando che la mezzala si era presentato come Severino Rosso della quotata Pro Vercelli, ma che nello stesso giorno Rosso risulta impegnato con l’undici piemontese.

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