I volontari abruzzesi in Emilia: "Così aiutiamo i terremotati "

Viaggio nelle tendopoli tra la paura e tanta voglia di ricominciare. Nel campo della nostra Protezione civile vivono circa 300 persone

Nei piccoli comuni della Pianura Padana la vita scorre apparentemente tranquilla. Te li lasci alle spalle con i loro campi sterminati e disseminati di balle di fieno. Ma ecco spuntare, a mano a mano che si prosegue verso nord, lungo la via Emilia, casolari d’inizio secolo col tetto sfondato: uno, due, tre... Sono il segno che ci si sta avvicinando alle terre del sisma.

Segni che a Cavezzo diventano inequivocabili: nei giardini privati emergono tende da campeggio messe su alla meno peggio dai cittadini spaventati dallo sciame sismico che non accenna a fermarsi, mentre nel centro storico s’incontrano cumuli di macerie e striscioni d’incoraggiamento. «Forza Mirandulasa, ten bota». «Cavezzo stai su, Cavezzo stay dech». Così a Mirandola, così a Cavezzo: negli striscioni sulle transenne che delimitano la zona rossa dell’Emilia colpita dal sisma del 20 e 29 maggio, c’è tutta la voglia di guardare avanti. Cartelli bianchi e gialli anche davanti ai magazzini sventrati con scritto «riapriremo presto» danno l’idea di gente che non vuole piangersi addosso.

A Cavezzo è stato allestito il campo Abruzzo, gestito dalla Protezione civile regionale insieme ad associazioni di volontariato, tra cui l’Associazione nazionale alpini, che cura il servizio mensa. Oltre 300 persone in tenda, molti stranieri provenienti da Africa, Asia, Europa dell’Est e America Latina. Un melting pot importante per un paese che conta 7mila e che convive nel campo gestito dai volontari di L’Aquila, Fossacesia, Pettorano sul Gizio, Lanciano, Chieti e tante altre località abruzzesi. Un lavoro intenso, specie nelle ore dei pasti, quando tra i banchi delle due mense del campo vanno a sedere un migliaio di persone che arrivano anche dai campi fai-da-te del circondario.

«Niente foto». Il cartello che vieta di scattare foto e registrare video all’interno del campo salta subito all’occhio e riporta la mente indietro di tre anni, in piena emergenza sisma abruzzese, con la gestione della Protezione civile nazionale targata Bertolaso. Ma stavolta il Dipartimento di comando e controllo (Dicomac) non c’entra niente. «Non ve la dovete prendere, lo facciamo per proteggere i nostri ospiti», quasi si scusa Giampiero Antonetti, funzionario della Protezione civile regionale e capocampo qui a Cavezzo. «I primi giorni è stato un delirio: i giornalisti arrivavano spalancando le tende con telecamere e microfoni, incuranti del caldo, della pioggia e della paura». A distanza di tre anni, Antonetti è ancora sfollato e non sa quando e se potrà tornare a vivere nella sua casa in via Patini, nel centro storico ancora sventrato dell’Aquila. E capisce bene da tecnico e da sfollato le sensazioni e le paure della gente di Cavezzo. «C’è incertezza sul futuro, ci si chiede quando si potrà lasciare le tende e tornare alla vita di prima e quando le scosse lasceranno in pace questi luoghi», racconta Antonetti. Domande che gli aquilani, a 500 chilometri più a sud in quest’Italia che crolla per una scossa, si pongono ancora.

In Emilia la gestione del sisma appare diversa da quella abruzzese almeno per un aspetto: i sindaci - tutti i sindaci dei comuni del cratere - sono stati nominati vicecommissari alla ricostruzione (commissario è il presidente della Regione Vasco Errani) e seguono direttamente la gestione dell’emergenza. A Cavezzo il sindaco Stefano Draghetti emetterà tra qualche giorno un’ordinanza per far rientrare nelle case agibili le persone. A spiegarlo è il responsabile dell’ufficio Sport e Tempo libero del Comune, Giancarlo Tampellini. «Abbiamo stimato che a Cavezzo è inagibile un terzo delle abitazioni», tutti gli altri dovranno lasciare le tende. L’obiettivo è non arrivare all’autunno o, peggio, all’inverno, quando nemmeno un campo ben attrezzato con canali di scolo e piattaforme per le tende potrà sostenere i lunghi mesi di pioggia, vento e temperature basse.

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