L'AQUILA Questa è la città fantasma viaggio tra ponteggi e macerie

Dopo il "carriola day" viaggio nel centro storico con Giustino Parisse del Centro e Jenner Meletti di Repubblica. Palazzi dentro scatole nere fatte di tubi. Nei vicoli pezzi di vita quotidiana e porte spalancate sul silenzio delle strade

L’AQUILA. Nel centro storico dell’Aquila, 24 ore dopo il “carriola day”, è tornato il silenzio. Negli spazi vuoti rimbalzano i rumori degli operai che tagliano travi di legno o che montano tubi Innocenti. I grossi mezzi dei vigili del fuoco sono fermi a ogni angolo. E’ ormai una città con le stampelle. Le facciate dei palazzi rimasti in piedi sono oscurate dalla mole enorme di ponteggi per la messa in sicurezza.

In alcuni punti i tubi sono così fitti che a malapena ci passa un gatto.

Entrare all’Aquila è come visitare un reparto di ortopedia: chi ha il gesso a una gamba, chi a una mano, altri hanno il corpo che sparisce nelle bende.

Scortato dai vigili del fuoco e con un collega del quotidiano la Repubblica ieri pomeriggio sono andato nel “ghetto” delle macerie, nel luogo che non si deve vedere e dove non si può tornare.

Dai Quattro Cantoni per via corso Umberto si arriva in un attimo a piazza Palazzo. Sallustio è sempre lì immobile in mezzo alla piazza ad osservare una città che va in rovina. E’ l’unico aquilano - anche se in realtà lui era nato ad Amiternum, l’attuale San Vittorino - che il sei aprile non è scappato e che ora aspetta. Aspetta che qualcuno torni. Forse ripensa a quel chiacchiericcio serale - sotto gli alberelli e intorno al “bagno pubblico” - che affogava nei rumori di un traffico infinito. Le auto continuavano a spuntare dall’incrocio con piazza dei Gesuiti e venivano su verso la sede della biblioteca provinciale. Non finivano mai. Nel palazzo che fu di Margherita d’Austria (la figlia naturale di Carlo V) le luci alle finestre si spegnevano sempre tardi. I sindaci lo facevano anche per dare l’impressione ai “sudditi” che il capo vigilava su di loro, sempre. Sulla torre del municipio, mezzora dopo il tramonto, 99 rintocchi erano il segnale che la giornata si stava spegnendo. Ma per i giovani e gli studenti universitari era il via libera a una notte da trascinare il più possibile, magari fino all’alba. Dopo l’una la piazza del palazzo perdeva ogni freno e le bottiglie di birra vuote scorrevano sul selciato in attesa di essere raccolte al mattino presto dal personale dell’azienda municipalizzata.

Oggi intorno al monumento a Sallustio ci sono mucchi di macerie e materiali di ogni tipo ad uso di chi sta mettendo in sicurezza i palazzi. Già, sono i palazzi, quelli che fanno più paura e mettono tristezza: palazzo Pica Alfieri vuoto e ferito è una delle tante immagini di una città che non ha più l’anima. Davanti c’è il palazzetto dei Nobili: era il luogo dei dibattiti, dove la città si ritrovava per incontrare scrittori, poeti, storici, economisti e perché no, i politici.

Il grande edificio costruito dai Gesuiti e dove sono passate generazioni di aquilani è muto e triste. I Gesuiti se ne erano andati già prima del terremoto.

Più giù, andando verso via Roma, c’è palazzo Quinzi. Impossibile non farsi travolgere dai ricordi: belli e brutti. In quell’edificio ho passato cinque anni intensi: la finestra in fondo, al primo piano, era quella della sezione F dell’istituto Tecnico commerciale dove mi sono diplomato nell’ormai lontano 1978. Nei due anni prima del sisma, quello stesso palazzo, è stato la sede della scuola di mia figlia, Maria Paola. Quest’anno avrebbe frequentato il terzo anno del liceo linguistico. Lei non c’è più. La scuola chissà se ci tornerà in quell’edificio ristrutturato da poco ma che non ha retto ai colpi del terremoto. Davanti a palazzo Quinzi ecco la sala Giovanni Paolo II. E’ stata intitolata al Papa polacco nell’agosto del 1980 quando Karol Wojtyla, eletto al soglio di Pietro da meno di due anni, visitò L’Aquila e in particolare la basilica di Collemaggio, la basilica di San Bernardino, il santuario di Roio: i simboli della religiosità aquilana oggi inaccessibili. Palazzo Carli sembra un pugile suonato. Già da fuori si vede che i danni sono enormi. Era la sede del rettorato. Anche lì erano stati fatti restauri: tutto vanificato in pochi secondi. Sulla facciata una targa ricorda che lo slargo è dedicato a Vincenzo Rivera, fu lui a volere con forza nel secondo dopoguerra che L’Aquila avesse una università. In quello slargo, nella notte in cui la città è finita in coma, hanno trovato un primo rifugio gli abitanti in fuga da via Roma e via Cascina e dai tanti vicoletti che si irraggiano fino a piazza Angioina. Via Roma: per tre anni le pagine locali del Centro si sono riempite di polemiche sulla opportunità o meno di farci passare la metropolitana di superficie che avrebbe dovuto risolvere i problemi del traffico cittadino. In molti erano preoccupati per la tenuta dei palazzi del Settecento: le vibrazioni provocate al terreno dal passaggio dei “treni” avrebbero potuto compromettere la stabilità degli edifici. Nessuno aveva mai pensato che se una piccola vibrazione poteva danneggiare i palazzi, figuriamoci cosa avrebbe potuto fare un terremoto. Quello che ha fatto il terremoto ora è lì: i tubi che compongono le scatole nere che tengono fermi i muri e nascondono persino le finestre, danno l’idea che si sta preparando un funerale. Piazza San Pietro a Coppito semplicemente non c’è più. Ieri l’ho vista per la prima volta non filtrata da foto o immagini televisive. La ricordo come la piazza dei matrimoni. Tante coppie sceglievano quella chiesa per dirsi sì. La scalinata, la fontana, le quinte dei palazzi: non si vede quasi più nulla. La piazza è colma di macerie. Si sentono colpi, tonfi e il rumore di seghe elettriche in azione. Vedo gente all’opera ma i loro gesti sono misurati, attenti, come per evitare di dare il colpo di grazia al malato grave. Sui loro volti non c’è il sorriso, è come se il tempo si fosse fermato in attesa di un fatto nuovo, un evento, una luce nella notte che ora sembra sempre più buia.

La chiesa di San Domenico non ha perso la sua imponenza. Il convento a fianco che ha ospitato per decenni il carcere era stato da poco rimesso a nuovo. Doveva essere la ciliegina sulla torta di una città orgogliosa e impaziente di mostrarsi al mondo come una bella donna che non ha bisogno di trucco per farsi ammirare. Riscendiamo su via Sallustio. Ci sono porte spalancate. Nessuno quella notte ha pensato a chiuderle. Il massimo che si vede è un filo di ferro fra due maniglie: così, giusto, per ricordare che lì qualcuno c’è stato e vuole ritornarci. Via Sallustio per gli aquilani è il Vicolaccio: se qualcuno in passato si è interrogato sul perché di quel dispregiativo oggi non ha dubbi: davanti all’ufficio postale nel quale ancora funziona il display per regolare le file degli utenti, ci sono pezzi di vita quotidiana: una sedia, un profumo, una rivista. In via Cavour ora c’è un silenzio spettrale. D’estate al calar della sera per passare bisognava sgomitare. La piazzetta che si incunea fra gli edifici era il salottino dell’Aquila. Il teatro San Filippo ha ancora la locandina degli spettacoli previsti all’inizio di aprile del 2009. Superata piazza Duomo ecco piazza della Repubblica. La scritta «palazzo del governo» piegata dal sisma è stata raddrizzata. Andiamo in via XX Settembre. Al numero 15 c’era la mia redazione: gli anni più belli della mia vita sono stati là dentro. Poi il sei aprile, quella vita, l’ho persa.