I 50 anni di Linus quando i fumetti divennero arte

2 Aprile 2015

Il primo numero della rivista uscì nell’aprile 1965 Una mostra e un convegno celebrano la ricorrenza

di Giuliano Di Tanna

Costava 300 lire e in copertina, su sfondo verde acido, aveva il disegno di un ragazzino con i capelli arruffati, attaccato a una coperta come a un salvagente. Si presentò così al pubblico italiano, nell’aprile 1965, la prima rivista di fumetti adulti (e altro) che portava il nome di quel ragazzino, Linus, uno dei personaggi dell’universo adolescenziale al quale il suo inventore, il disegnatore Charles M. Schulz aveva dato il nome frivolissimo di Peanuts, noccioline americane.

Sono passsati 50 anni da quell’aprile, e il mezzo secolo di Linus, si appresta a essere celebrato con un numero speciale della rivista, in edicola sabato prossimo, e una duplice iniziativa a Milano: una mostra al museo Wow Spazio Fumetto, aperta dall’11 aprile, e un convegno all’Università Cattolica, il 14 aprile. Sulle pagine di Linus sono nati o sono cresciuti tutti i grandi autori italiani di fumetti e vignette satiriche: da Hugo Pratt ad Andrea Pazienza, Guido Crepax, con la sua Valentina, Igort, Enzo Lunari, Daniele Panebarco, Filippo Scozzari, Altan, Vauro, Vincino e Pericoli e Pirella. E poi gli stranieri: oltre a Schulz e alla sua brigata di bambini-adulti che ricordano gli adolescenti difficili di Salinger, gli intellettuali newyorkesi di Feiffer, l’epopea sudista di L’il Abner e compagnia di Al Capp, il Popeye di Elzie Segar, la Krazy Kat di George Herriman, e ancora Robert Crumb, Garry Trudeau e Johnny Hart, Geroges Pichard e Jacques Lob, Matt Groening, Scott Adams e Wolinski, il fumettista francese ucciso a Parigi, in gennaio, nell’attentato alla sede di Charlie Hebdo, il settimanale nato sull’esempio di Linus e che, al pari della rivista italiana, prese il suo nome da un personaggio dei Peanuts, Charlie Brown.

L’Italia del 1965 in cui apparve il primo numero di Linus era un Paese che aveva in grande sospetto i fumetti, accusati da insegnanti e genitori di distogliere i ragazzi dalla lettura di cose più serie, come per esempio i libri. Ma non era ai ragazzi o ai bambini che si rivolgeva la rivista. Il pubblico scelto da Giovanni Gandini, il primo direttore di Linus, era, piuttosto, quello dei liceali, degli studenti universitari e, soprattutto, degli intellettuali di un Paese che stava cominciando ad aprirsi alle correnti più moderne e cosmopolite della cultura, dismettendo i panni un po’ stretti dell’idealismo crociano, e a imparare nuovi lessici come quelli dello strutturalismo, della psicoanalisi applicata alle arti o del New criticism. Quasi a voler chiarire che su quelle pagine i fumetti sarebbero stati trattati come una roba da adulti, il primo numero della rivista conteneva un’intervista-tavola rotonda a tre voci con Umberto Eco a parlare di comics con Elio Vittorini e Oreste del Buono che, di lì a qualche anno, sarebbe diventato il direttore della rivista (si legga il box qui sopra). E non è affatto un caso che a condurre la danza di quella conversazione in pubblico sui “pupazzetti” fosse un intellettuale come Eco, amante delle contaminazioni, sodale del Gruppo 63, funzionario Rai con studi sul tomismo (che metterà a frutto, 15 anni dopo, nel suo primo romanzo, “Il nome della rosa”) e, soprattutto, fresco autore di un libro come “Opera aperta” che aveva contribuito a far circolare aria nuova nell’accademia italiana ponendosi come un modello di come con gli strumenti delle nuove scienze sociali si potesse provare a leggere e interpretare i prodotti della cultura di massa come il cinema, la televisione, la pubblicità e, per l’appunto, i fumetti.

Appena un anno prima, nel 1964, due altri eventi culturali avevano aiutato a creare il clima in cui una rivista come Linus – con il suo mix di colto e popolare, alto e basso – aveva potuto vedere la luce.

Il primo fu la grande mostra della Pop art alla Bienale di Venezia che sdoganò in Italia quella nuova sensibilità aperta alla cultura di massa, esponendo i quadri e gli oggetti di Warhol, Rauschenberg, Oldenburg e, soprattutto, i dipinti di Lichtenstein che consistevano in giganteschi ingrandimenti di vignette di fumetti popolari americani. L’altro avvenimento fu la pubblicazione sulla New York Review of Books, la bibbia delle intellighenzia americana, delle “Notes on Camp” , gli appunti sulla sensibilità Camp, di Susan Sontag. Fra gli esempi di Camp (una sorta di apprezzamento della cultura bassa da parte della cultura alta) la saggista newyorkese citava, fra la lampade Tiffany e le opere di Bellini, il film King Kong e alcune regie di Luchino Visconti, la cantante cubana La Lupe e i romanzi di Ronald Firbank e Ivy Compton-Burnett, anche «i vecchi fumetti di Flash Gordon». «Camp», scriveva la Sontag a mo’ di compendio, «è un modo di guardare il mondo come un fenomeno estetico, non in termini di bellezza, ma di artificio e stilizzazione». Insomma, il mondo come un fumetto.

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