la sentenza

Pescara, evade l’Iva per necessità, imprenditore riottiene i suoi beni

Creditore per 4 milioni di euro per fatture mai saldate dalla pubblica amministrazione, vince il ricorso in Cassazione

PESCARA. La pubblica amministrazione non gli paga crediti pari a quasi quattro milioni di euro e la Corte di Cassazione annulla, con rinvio, la sentenza del tribunale del Riesame di Pescara, che aveva confermato il sequestro preventivo, disposto dal gip, di quasi 170mila euro dai suoi beni personali e dalla liquidità di un’azienda a lui collegata. L’equivalente dell’Iva non pagata nell'anno 2011.

È la storia - l’ennesima in Abruzzo – di un altro “evasore forzato”, quella di un imprenditore pescarese che si è visto dare ragione dalla III sezione penale della Suprema corte, che aveva accumulato crediti, nei confronti della pubblica amministrazione, pari a 3.859.500 euro, a fronte di 167.896 euro di Iva non versata nel 2011. Una cifra, quest’ultima, che aveva innescato un procedimento penale e spinto il gip di Pescara, il 16 gennaio dell’anno scorso, a disporre il sequestro dei beni. Ora però la palla, stando alla sentenza degli ermellini del Palazzaccio, dovrà tornare al tribunale del Riesame.

Per la Cassazione, infatti, la decisione del tribunale di Pescara sarebbe affetta da «carenza motivazionale». Ma non è la prima volta, per piazza Cavour, una decisione di questo tipo. Già nel 2014, il 28 agosto, la sezione penale feriale della Corte suprema aveva deciso in maniera analoga nei confronti di un imprenditore siciliano, mentre in Abruzzo, ad Avezzano, il tribunale aveva assolto un imprenditore, vista la crisi in cui era incorsa la sua azienda.

Idem a Teramo, sempre nel 2014, quando il giudice ha assolto un industriale, inquisito per evasione. Una decisione, quella ora depositata in cancelleria lo scorso 17 dicembre, che la Suprema Corte ha sigillato, fissando il principio che se non vi è dolo, e dunque se non vi è l’elemento psicologico nel commettere il reato, l’indagato non può essere ritenuto responsabile.

Di fatto, diventa una sorta di “evasione di sopravvivenza”, il mancato versamento dell’Iva, se si riesce a dimostrare che si è fatto di tutto per effettuarlo, ma una causa di forza maggiore, come quella di una mancanza di liquidità, dovuta, nel caso dell’imprenditore locale, al procrastinarsi del pagamento delle fatture da parte della pubblica amministrazione. In altre parole, se, pur DI mandare avanti l’azienda, a causa di un impedimento generato da una forza diversa dalla propria volontà, non viene versata l’Iva, un ricorso contro un sequestro preventivo di beni, per la Cassazione appare fondato. Tra l’altro l’imprenditore, sempre dalla lettura della sentenza della Corte suprema, aveva dimostrato di avercela messa proprio tutta, per pagare il suo debito col fisco, tanto che per i periodi 2005-2008 e 2009-2011, con Equitalia aveva raggiunto un accordo per la rateizzazione dell’Iva.

La Cassazione, pertanto - la quale ha però respinto un secondo ricorso dell’imprenditore, nel quale si chiedeva di rideterminare le somme sequestrabili per equivalente in ragione della riduzione del debito tributario (rivendicando il fatto di aver presentato il piano di rateizzazione), e dunque di ridurre l’entità del sequestro preventivo – ha decretato che il tribunale del Riesame, a cui si era appellato il ricorrente dopo la decisione del gip sul sequestro preventivo, torni a pronunciarsi. Dovrà corredare la precedente decisione di una una documentazione più approfondita, in quanto «l'ordinanza impugnata si è limitata a riassumere gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, citando ampi stralci motivazionali delle decisioni di questa Corte in materia di sequestro preventivo nei reati tributari e alle problematiche di liquidità». Inoltre, scrive la Corte, «la giurisprudenza ha sottolineato la necessità che venga esaminata la sussistenza dell'elemento psicologico del reato», ma «sul punto l'ordinanza impugnata non ha fornito una risposta se non meramente apparente, alle doglianze avanzate con il riesame».

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