Rigopiano 4 anni dopo «Li potevano salvare» 

Il corteo dei familiari: no alla prescrizione come a Viareggio

RIGOPIANO. La stessa luce, lo stesso gelo, la stessa neve di quattro anni fa. E quel canalone che ancora solca la montagna e incombe come una firma di morte lasciata dalla valanga quel maledetto mercoledì del 2017. Ai piedi del canalone oggi c’è il vuoto lasciato dall’hotel raso al suolo e il dolore di chi in quel vuoto è tornato, per la quarta volta in questo giorno, per commemorare i propri cari. «I nostri angeli» li chiamano i familiari, 29 persone morte prigioniere di una strada rimasta bloccata e uccise da una valanga da cui si sarebbero potute salvare.
RABBIA E DOLORE. È il giorno del ricordo a Rigopiano, ma quanta rabbia e quanto dolore tra chi sfila nel gelo con la fiaccola in mano e la solitudine amplificata dalle distanze imposte dal Covid. «Si potevano salvare, li dovevano salvare», ripetono i familiari delle vittime. «Bastava fare il piano valanghe prima di dare l’autorizzazione all’hotel di aprire», dice Fabio Salzetta, sopravvissuto solo perché alle 16,49 si trovava nel vano caldaia dell’hotel, scampato per pochi metri a quella bomba di ghiaccio detriti e neve. «Con la montagna alle spalle, a 1.200 metri di altezza, la valanga ha preso la mira l’albergo come una fucilata», racconta Fabio che a Rigopiano ha perso la sorella Linda, dipendente come lui del resort. È un anniversario diverso dagli altri perché le norme anticontagio che hanno ridotto il numero dei partecipanti e annullato la consueta celebrazione pomeridiana al palazzetto dello sport di Penne, hanno restituito però l’esatto scenario di quel mercoledì di quattro anni fa. Ed è un’emozione troppo forte per chi lì ha perso un figlio, un fratello, la fidanzata. O entrambi i genitori. Mai come questa volta il ricordo di quelle vite spezzate si incolla al presente. E nel silenzio del giorno che a poco a poco si spegne ognuno dei familiari riesce quasi a percepire la paura e la voce di chi ha chiesto aiuto fino alla fine.
FIACCOLATA E MESSA. Dopo la fiaccolata che dal fontanone, intorno alle 15, porta il corteo fino all’insegna dell’hotel, lapide collettiva con le foto dei morti e la scritta “mai più”, la tromba intona il Silenzio. C’è l’alzabandiera con i carabinieri in alta uniforme che depositano la corona inviata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Poi i nomi dei 29 angeli scanditi mentre ogni familiare percorre lo stretto tragitto ricavato nella neve e va a depositare una rosa nell’area dell’hotel che non c’è più. E la messa celebrata da don Luca Di Domizio, parroco di Farindola, di fronte ai familiari delle vittime, ai politici e ai rappresentanti delle istituzioni. Il presidente della Regione Marco Marsilio, il presidente del consiglio regionale Lorenzo Sospiri, i consiglieri regionali Guerino Testa e Vincenzo D’Incecco, il prefetto Giancarlo Di Vincenzo, il questore Luigi Liguori, il comandante provinciale dei carabinieri Eduardo Gambardella, il comandante della compagnia di Penne De Rosa e alcuni sindaci dei comuni colpiti dai lutti. «Sono passati quattro anni da quando abbiamo vissuto quei momenti di sofferenza, di senso di vuoto, di paura e trepidazione», dice nell’omelia don Luca, «sofferenza che non possiamo cancellare ma alla quale possiamo dare un valore cristiano. C'è bisogno di unità e fratellanza».
LE 16,49. Parole che accompagnano il gruppo al momento più struggente, le 16,49, l’ora della valanga. Questa volta, a differenza degli altri anni, non si scopre il telone con le foto delle vittime dentro il palazzetto, ma si lasciano andare 29 palloncini bianchi dal punto in cui la valanga piombò per inghiottirsi vite e sogni di chi è morto e di chi è rimasto a piangerli. E ai piedi di quel canalone tutto fa ancora più male.
LA PROMESSA DI MARSILIO. «Quel giorno si scatenarono diversi elementi e accadde un cataclisma» afferma il presidente della Regione, Marsilio. «Stiamo lavorando affinché queste cose non accadano più. Nelle prossime settimane porteremo a conclusione il lunghissimo iter della carta valanghe, uno dei presupposti per evitare che sul territorio si verifichino disgrazie in maniera improvvisa e imprevedibile».
NO COME VIAREGGIO. E poi ci sono i timori per il processo in corso. «Quello che è accaduto a Viareggio con la Cassazione che ha prescritto gli omicidi colposi per le 32 vittime del disastro ferroviario è stato in colpo al cuore», dice Marco Foresta, rimasto orfano dei genitori Tobia e Bianca, «il timore è che finisca così».
GABRIELE, LE 88 CHIAMATE. «Sono passati quattro anni ma le nostre battaglie continuano», commenta Francesco D’Angelo, gemello del cameriere del resort, Gabriele, che quel 18 gennaio, riferisce il fratello «fece 88 telefonate per chiedere aiuto, comprese quelle alla Prefettura. Adesso», va avanti Francesco, «è spuntata pure la perizia dell’università secondo cui la valanga sarebbe scesa per colpa del terremoto. E allora perché a Rigopiano c’era una commissione valanghe negli anni scorsi? La valanga era prevedibile eccome».
IL RIMPIANTO DI FABIO. A cerimonia finita ognuno se ne torna a casa. Fabio Salzetta è tra quelli che abitano più vicino a quel posto di morte, «a un quarto d’ora di auto», dice, «ma qui non torno mai. Oggi l’ho riguardato di nuovo il canalone, è lo stesso che c’era quando sono uscito dal vano caldaia e non ho trovato più l’hotel: la montagna che sembrava così lontana di colpo, senza le piante, era vicinissima. Come oggi». Ed è alla montagna, e al canalone, e alla neve che in un soffio ha cancellato tutto, che Fabio, testimone di quel disastro, non ha mai smesso di pensare. «Ci ripenso tutti i giorni». E non si dà pace: «Se la valanga fosse arrivata 10 minuti prima, almeno la metà delle persone si sarebbe salvata. Perché fino a 10 minuti prima erano ancora quasi tutti fuori, vicino al totem, a pulire le macchine in attesa della turbina. Poi stava arrivando il buio, si era capito che non venivano a liberarci e sono rientrati tutti». Ed è arrivata la valanga.
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