Violenza sessuale al convitto I giudici: grave danno morale 

Ecco perché l’Appello ha confermato per il bidello 3 anni e 10 mesi di reclusione Le giustificazioni dell’imputato: «Gli avrò dato delle pacche, l’ho abbracciato»

ALANNO. Anche i giudici di appello dell’Aquila, nel confermare la condanna di primo grado del bidello dell’istituto Cuppari di Alanno, Dante Di Serio, a tre anni e dieci mesi di reclusione, per la violenza sessuale subìta da due ospiti del convitto all’epoca minorenni (i fatti sono di febbraio e marzo del 2018), confermano in pieno l’attendibilità delle parti offese (assistite dagli avvocati Carlo Corradi e Concetta Di Luzio).
I giudici ricostruiscono gli episodi contestati al bidello, sottolineando anche il fatto che lo stesso imputato, ritenuto un pubblico ufficiale, «coadiuvasse gli istitutori anche nella sorveglianza e cura dei convittori, costituendo un loro punto di riferimento».
Le violenze si sarebbero verificate per lo più nella stanza che occupava l’imputato, dove alcuni dei ragazzi si recavano per vedere alla televisione qualcosa di diverso dai programmi che vedevano gli altri. Ed è anche in quella stanza che si sarebbero consumate le violenze, riprese dagli inquirenti con intercettazioni ambientali. «Lo stesso imputato», si legge in sentenza, «in sede di interrogatorio di garanzia ha fornito giustificazioni rispetto alle immagini captate che lo mostrano abbracciare e palpeggiare il M., infilarsi le mani nei pantaloni, palpeggiarsi (...), contro ogni evidenza e al limite del risibile («avrò detto che è brutto e gli avrò dato delle pacche, l'ho abbracciato e gli ho detto "ma no, non sei brutto, vedrai che diventi bello dimagrisci”. Anche perché in quei giorni ho indossato dei pantaloni che mi andavano larghi e ogni tanto mi dovevo risalire i pantaloni»).
I giudici contestano anche la deduzione difensiva dell’avvocato Uberto Di Pillo che difende l’imputato, e cioè che la parte offesa si era recato volontariamente nello stanzino dell’imputato, non se ne era allontanato, pur potendolo fare e non si era sottratto alle attenzioni dell’imputato.
«Rileva la Corte», si legge in sentenza, «che, sebbene la parte offesa nel lasso temporale in cui ebbe volontariamente ad intrattenersi in detto stanzino al fine di vedere un film, non si sia sempre e costantemente sottratto alle attenzioni e alle carezze dell’imputato, il che evidenzia sicuramente una confidenza, anche fisica, tra le parti, lo stesso, invece, in plurime occasioni ha espresso all’imputato il suo deciso ed inequivoco dissenso per fatti, respingendolo, scansandosi, indietreggiando e divincolandosi, e a parole (Dai fermati! Statt ferm! Lascia un po! Ti sti ferm?), a che l’imputato continuasse in dette condotte e soprattutto, le portasse a ulteriori conseguenze, venendo, ciò nonostante, nuovamente e reiteratamente abbracciato, palpeggiato e incitato all'attività sessuale».
Condotte che per i giudici integrano senza dubbio il reato di violenza, «atteso che la nozione di violenza non necessita dell’uso della forza fisica diretta a vincere la resistenza del soggetto passivo».
I giudici sono stati fermi anche nel negare che quei fatti potessero essere intesi come di «minore gravità», come sostenuto dalla difesa.
«Sono connotati», scrivono invece i giudici, «da particolare gravità in quanto consumati nei confronti di soggetti sedicenni, ospiti di un convitto e pertanto separati dai propri genitori e inclini a fare affidamento sugli adulti ivi presenti tra i quali in particolar modo proprio l'imputato».
Anche in relazione al risarcimento del danno la sentenza segna un punto fermo: «La prova della violenza sessuale implica necessariamente quantomeno la sussistenza della prova di un danno morale, identificabile nel patema d’animo o sofferenza interiore subiti dalla vittima, ovvero nella lesione arrecata alla sua dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana».
©RIPRODUZIONE RISERVATA