l'aquila

Walter e Peppe, amici nella vita e nella morte

Il medico gentile sull’ultimo volo al posto del collega e il gigante buono del 118 tra elicotteri e ambulanze

L’AQUILA. Era l’estate del 1985 quando la vita mi regalò l’amicizia di Walter Bucci. Mi era caduta la borsa accanto alla fontanella di via Garibaldi, a L’Aquila, di fronte a piazza San Silvestro, all’angolo di via delle Streghe. Tutto il contenuto della sacca era sui sampietrini. Lui mi aiutò a raccogliere matite, fazzoletti, monete, con gentilezza, semplicità, simpatia, gli stessi tratti che lo hanno accompagnato per tutta la vita. Mi disse che studiava medicina, perché il suo desiderio era quello di aiutare le persone. In passato aveva vissuto e studiato anche a Sulmona, dove lavorava il papà carabiniere. Dopo la laurea la specializzazione in Medicina interna, poi quella in Cardiologia, le prime guardie mediche e infine l’approdo al pronto soccorso di Avezzano, al 118 di Carsoli, e poi all’Aquila. Nel frattempo, Walter si era sposato ed era diventato padre di due bimbe. Lo si vedeva in giro col passeggino, col volto sempre sorridente, orgoglioso dei suoi tesori. Spesso lo incontravo in piazza Duomo con le bambine, e fu proprio durante uno di questi incontri con rispettivi figli piccoli al seguito che mi disse di essere entrato nei volontari del soccorso alpino.

Walter su quell’elicottero c’era salito un’infinità di volte, per salvare vite umane. Non è possibile tentare di stabilire con precisione quante persone abbia soccorso, spesso in condizioni estreme, tentando il tutto per tutto e senza arrendersi mai alla stanchezza. Per tutti aveva una parola buona. «Non puoi capire», diceva, «cosa significa avere tra le mani la vita di una persona, guardarla negli occhi, e non poter fare niente». No, non potevo capire, ma cercavo di immaginare il mio amico Walter a bordo del “suo” elicottero che si calava con la fune per recuperare un ferito in un canalone sul Gran Sasso, pieno di neve. Era lui che raggiunse la montagna di Rocca di Cambio sulla quale, nel 2002, si schiantò un Cessna. Lo trovai provato, stravolto, non per la fatica, ma perché non era riuscito a fare niente per quegli uomini dell’equipaggio che dall’Ucraina erano venuti a morire in Abruzzo. L’ultima volta che l’ho sentito è stato qualche settimana fa. Era con un altro amico, che arrampicava su una falesia nei dintorni di Capestrano, ma non vedeva l’ora di scendere, perché la sua compagna lo stava aspettando. Ho saputo da amici comuni che era stato tra i primi soccorritori ad arrivare, con gli sci, all’hotel Rigopiano, dormendo qualche ora in ambulanza durante i turni di riposo per poi tornare a scavare tra le macerie. Poi, era tornato all’Aquila, al suo lavoro “normale”, fino a ieri mattina. Non doveva esserci su quell’elicottero, perché non era il suo turno. Aveva chiesto di sostituire un collega.

Più tardiva, ma non meno significativa, l’amicizia con Peppe Serpetti, il gigante buono del 118 dell’Aquila. Brillante, simpatico, intelligente, sempre di buon umore, anche quando le cose non andavano troppo bene. Schietto, onesto, perbene, Peppe lo avevo incrociato per motivi professionali, facendo il classico “giro di nera”, ed era nata una bella amicizia. Ci fermavamo spesso a parlare, quando le esigenze di lavoro lo permettevano, quando non era in giro su elicotteri o a bordo di ambulanze a salvare, anche lui, vite umane. La prima volta che lo vidi all’opera fu durante un concerto della Perdonanza, sul prato di Collemaggio. Stava prestando soccorso a una ragazza che aveva accusato un malore. Le parlava con una calma rassicurante, e io riuscii a dare un volto a quella voce che conoscevo da mesi, solo per telefono. Aveva lavorato tanti anni a Roma, prima di tornare all’Aquila. L’ultima volta che l’ho visto è stato il 6 aprile del 2009. Ero al campo sportivo di Paganica, con gli altri sfollati, quando vidi arrivare l’elicottero e mi avvicinai. Scese Peppe, e nonostante il disastro intorno, mi sentii tranquilla. Dopo il terremoto Peppe aveva incontrato la donna della sua vita e l’aveva sposata. Hanno avuto due bellissimi bambini. Me lo raccontò, per telefono, sempre durante un giro di nera. Mi disse che era felice.

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