Il Cagliari sceglie Pisacane, l’uomo che visse e morì due volte (e dice: “Sono risorto in Abruzzo, a Lanciano”)

Fabio Pisacane, ex calciatore, è il nuovo allenatore del Cagliari. A il Centro racconta la sua storia e la sua carriera fatta di sfortuna, rinascita, traguardi e premi
Una nuova panchina di serie A è stata aggiudicata. È deciso: Fabio Pisacane - l’uomo che visse due volte - sarà il nuovo allenatore del Cagliari per la prossima stagione. La scelta definitiva è arrivata nella giornata di domenica, al termine di un piccolo “contest “ tra allenatori in cui alla fine erano rimasti in corsa solo lui e l’ex allenatore del Torino Paolo Vanoli (Una curiosità: lo scorso anno lo stesso Vanoli, scelto dal Cagliari, dopo aver stretto un accordo informale, si era accasato con la squadra di Urbano Cairo). Alla fine l’ha spuntata Pisacane, per gli ottimi risultati raggiunti con la primavera, e per la Vienna dimostrata in questi anni, a Cagliari, a Genova, ovunque. Nelle prossime ore arriverà la comunicazione ufficiale della società. Ma ecco come lo stesso giocatore napoletano - per tutti “Pisa” - racconta la sua incredibile storia, fra malattie rare, paralisi totali, e risurrezioni inaspettate.
(Sorride). Secondo te, come sono arrivato a giocare in serie A, malgrado tutto e tutti?
Spiegamelo.
(Sornione). Come pensi che sia arrivato a giocare in un club prestigioso dove mi trovo benissimo?
Spiegamelo.
(Serio). Come ho fatto a superare non una ma ben tre malattie, per giunta una dietro l’altra?
Spiegamelo.
Come ho fatto a uscire dai confini della categoria quando ero in serie C? Come sono riuscito a fare il difensore centrale malgrado io sia alto “solo” un entro e settantotto centimetri?
Spiegamelo.
E certo, te lo spiego io perché! perché io sono un martello, un trapano: sono un matto, uno “serenamente maniacale”, passami il termine, nella cura dei dettagli!
Sai che questo non basta.
Ci sono riuscito perché non mi sono mai arreso di fronte a nulla.
Questo conta.
Perché sono predestinato. Un pre-de-sti-na-to!
Cosa intendi?
Che poteva anche cadermi un meteorite sulla testa, ma nulla mi avrebbe fermato.
E come mai?
Perché nella vita conta più di tutto il carattere, la grinta, la passione che ci metti.
E tu ne hai.
Se ne ho? Anche nel momento più buio - e come vedrai ne ho avuti tanti, piccoli e grandi - non ho mai perso la fiducia in me stesso. La determinazione. Nulla poteva fermarmi e nulla mi ha fermato.
E oggi?
Sono felice, vivo alla giornata, ho imparato che nel calcio esiste una unica religione, che è il campo.
In che senso?
A Cagliari, da giocatore, avevo un contratto fino al 2020. Ma dopo quel contratto ho giocato 105 partite dal primo minuto, senza mai essere partito, in un solo campionato, come titolare. Vorrá dire qualcosa?
Ti sei conquistato il posto ogni volta, con allenatori diversi, in campionato diversi, in ruoli diversi.
Esatto! E se mi avesse chiamato, in qualsiasi momento, un qualsiasi club di serie A dicendomi: “Vieni, che qui ti facciamo giocare titolare”, ti giuro che io non mi sarei mai mosso da Cagliari.
Non ci credo. Come mai?
Perché sono io quello che non ci crede. Ovvero: non ho mai creduto alle chiacchiere del mercato nel calcio italiano, ai posti da titolare che si promettono, alle formazioni fatte per dovere di contratto. Non è mai così nella vita reale.
E a cosa credi, allora?
Alle maglie che si conquistano sul campo, con il sudore e con la fatica. Nella vita ho avuto un’altra formatisi rispetto ad altri: quella di conoscere i miei limiti e i miei punti di forza.
Dimmi un tuo limite, che è sempre la cosa più difficile da fare.
Da giocatore? Io potevo giocare in tanti ruoli, potevo fare il centrale o il terzino, ma non sono mai stato il tipo di giocatore che arriva sul fondo e ti pennella dieci cross. Sapevo che ne potevo fare uno, due, tre in una partita.
Dimmi un tuo punto di forza.
Studio, ragiono, stringo i denti. Quando leggevo in una pagella su di me “È rimasto concentrato fino all’ultimo” mi sentivo come se mi avessero dato il pallone d’oro.
Ti rendeva felice?
Si. È quello che mi aspetto da me stesso. Studiavo gli avversari di ogni partita come se mi preparassi ad un esame, aderivo a loro nella marcatura come ad un guanto. E cercavo di dare sempre alla squadra quello che la squadra si doveva aspettare da me.
Cosa?
Se si gioca fino al 106esimo io sono concentrato fino al 107esimo minuto. A volte entravo negli spogliatoi a fine partita e sono così carico che volevo dare calci al muro e ritornare subito a giocare. Ci credi?
Si, mentre me lo diceva ci credevo. Intervistavi Fabio Pisacane e venivi travolto dalla sua passione. Non è un sentimento passeggero: è una carica che lo attraversa e che trasmette da anni a chiunque faccia la sua conoscenza. Quando gli parli ti accorgi che ha vissuto 33 anni di carriera da giocatore con lo stesso entusiasmo di quando era ragazzino, e che il suo esordio “tardivo” in Serie A, con i colori rossoblù, nella sua testa per lui è diventato il coronamento di una favola: “Io so che avrei potuto tranquillamente giocare tutta la vita in serie C e lo avrei fatto anche con grande soddisfazione. Peró sono arrivato in A, era lì: era lì che volevo e dovevo arrivare”.
Intendi a Cagliari, o in Serie A?
Entrambe le cose.
Spiega.
I miei due figli sono sardi di adozione. Questa città mi ha accolto, ha abbracciato me e la mia famiglia, e io ci sto benissimo.
E anche in società ti trovi bene?
Quando mi stava scadendo il contratto ho parlato con il presidente. Non posso rivelarti i dettagli del colloquio ma il senso sì: ti giuro che in quattro parole ci eravamo già capiti. Mi ha rinnovato e io sono l’uomo più contento del mondo. Così é nato un rapporto di fiducia con Giulini.
Quanto pensavi di poter giocare ancora?
Non mettevo limiti alla provvidenza. Quello che la natura da la natura toglie. Ho avuto tanti malanni, nella mia vita, ma poi ho avuto il mio fisico mi ha aiutato ad allungarmi la carriera.
Ti senti bene?
Benissimo. avere una corporatura asciutta nel tempo ti preserva, la macchina del tuo corpo si logora meno. Parliamo di spina dorsale, di articolazioni, di muscoli....
Sei diventato un esperto di anatomia.
Ci scherzi ma è così. Sai quando ho fatto uno dei veri salti di qualità della mia carriera? Quando ho sistemato i denti. Ho capito allora quanto può contare il fattore “postura” in un corpo.
Perché?
Digrignavo, e questo mi faceva male in campo.
Come reagisce la tua macchina corporea agli anni in serie A?
È come se con il mio esordio in A fossi rinato. Io quel giorno mi sono sentito come il Fabio dei 25 anni. Però, allo stesso tempo sono stato anche un altro Fabio, uno che non ha mai smesso di imparare.
Dove inizi a giocare?
(Risata) A Napoli, nelle strade della mia città. Nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, dove il campo non ha linee di confine e dove si gioca senza arbitro e allenatori, dalla mattina alla sera. In strada.
Predestinato alla difesa?
Macché! Ero attaccante. E segnavo, anche.
Prima vera squadra?
La Celeste, la squadra dei Quartieri. Lì mi nota Carmine Dascone e mi compra. Vuoi sapere la prima quotazione della mia vita?
Certo.
Un milione di lire! E mi sembrava una enormità. Carmine mi porta alla Damiano promotion, una realtà regionale molto importante.
E lì ti cambiano di ruolo.
Una tragedia, per me.
Addirittura?
Hai capito che carattere ho, no? Lo avevo anche allora, tale e quale. Anzi pure peggio.
E cosa succede?
Umberto Fabozzi, il mister, mi arretra come centrale e mi dice: “Da oggi tu giochi qui”.
E non eri per nulla contento.
Scherzi? Sono tornato a casa, da mio padre, piangendo. Ero uno scugnizzo, e parlando in napoletano dicevo: “Non me ne fotte niente! Non me ne fotte niente!”. E poi: “Quelli non mi vedono più!”.
E tuo padre?
Mio padre era la persona più calma del mondo. Non era una grande esperto di calcio, semmai lo è diventato, ma teneva a me. Di solito veniva agli allenamenti, si metteva in un angolo e si leggeva il giornale.
E quella volta?
Andò dal Mister e gli disse “Mio figlio non vuole più venire, lui gioca per divertirsi”. Ma il mister era irremovibile.
Cosi ti trasferisci al Savoia, la squadra di Torre Annunziata.
Eravamo una succursale, ma quell’anno abbiamo vinto tutto.
Ottieni quello che volevi.
Certo. Mi piazzo in attacco e segno una caterva di goal. Avevo poco più di 12 anni, mi sentivo un eroe, e torno alla Damiano convinto di aver conquistato il mondo.
E ci riesci?
(Ride di gusto). Ma nemmeno per sogno! Sono davanti al mister, lo stesso. Quello mi guarda e mi fa, senza esitazione: “Tu per me sei sempre difensore”. Punto, discorso finito.
L’avrai odiato.
Ma per quello che mi é accaduto poi, forse, dovrei ringraziarlo.
Cosa avevi allora?
Avevo personalità.
E ti inserisci?
Mi danno la fascia di capitano, inizio a guidare la difesa e mi sento di nuovo come un Re.
Quanto dura?
Otto mesi: dopo di che c’è il primo grande salto della mia vita. Vengo venduto per 50 milioni.
Approdi a Genova.
Un grande club, un grande momento. Sono arrivato prestissimo, e penso: bene Fabio, ce l’hai fatta.
Quattro anni di giovanili, ma ti sta arrivando addosso la prima catastrofe della tua vita.
L’ho raccontato tante volte, - a chi mi vuole bene - che ormai mi sembra un secolo fa. Nel 2000 scopro nel modo più traumatico di essere affetto della sindrome di Guillain-Barret.
E per di più in una forma grave.
Pensa. Una mattina ti svegli completamente paralizzato. Non riesci a muovere un muscolo, sei bloccato dalla testa ai piedi. Così di solito iniziano i film dell’orrore, e invece era solo il primo minuto della partita più difficile della mia vita.
Quando inizi a capire davvero cosa ti sta succedendo?
Quando mi ritrovo in un letto di ospedale e mi diagnosticano che ho proprio la Guillain-Barré. Giorno terribile.
Cosa ricordi?
Il primario mi dice: “Non potrà mai più giocare a calcio”. il sogno che avevo fin da bambino andava in frantumi, e persino la mia sopravvivenza era in dubbio.
Peggiori anche in ospedale.
Da un giorno all'altro passo dalla paralisi, al coma. Mi raccontano quanto sia difficile uscire da questo incubo.
Ovvero?
Qualcuno rimane paralizzato ad un braccio, qualcuno guarisce ma non vede più da un occhio. Un incubo. Me lo dicono per prepararmi: “Figuriamoci se potrai tornare a correre”.
A chi devi dire grazie?
Al primario del San Paolo. A tutto quel reparto, che forse in questo campo è uno dei migliori al mondo. Al medico del Genoa che mi porta lì. Poi anche a me stesso, per non aver mollato.
Torni a giocare, lentamente, dopo cinque anni di inferno.
Quando mi ripresento da Claudio Onofri, capo del settore giovanile del Genoa e gli dico: “Io sto bene”, lui mi guarda come se fossi un matto.
E tu invece senti che puoi ripartire da dove ti eri fermato.
È lì che questa voce inizia a parlarmi dentro “Sono un prescelto, sono uno nato per scrivere la storia. Sono tornato perché devo riuscire”.
Senti le voci?
(Ride). Solo questa.
Il primo rientro in campo?
L’esordio in B. Gioco 36 minuti prendo sette e mezzo in pagella. Ma di nuovo il destino si mette in mezzo: pubalgia.
Ricominci a combattere, e ti rimetti anche da quel malanno.
Avevo sconfitto la Guillain-Barré potevo farmi fermare da un dolorino?
Sei costretto a girare per squadre di serie C.
Alla Cremonese, al Ravenna, al Lanciano. Alla Sangiovannese. Ad un certo punto arriverò a ingaggiare un braccio di ferro con la mia società dell’epoca. A dire dei No per difendere la mia carriera.
Intanto torni a giocare davvero al Lanciano, 22 presenze.
Esatto. In Abruzzo sono tornato un giocatore. Mi compra il Chievo, che mi gira al Lumezzane. Faccio un anno davvero buono, con 32 presenze, riuscendo anche a segnare 3 reti!
Diventi per la prima vota un beniamino dei tifosi, e fai un salto di categoria.
All’Ancona, in serie B.
Ed è di nuovo catastrofe.
(Ride e sospira). Doppia catastrofe. Perché sul più bello mi rompo il menisco. E perché il club a fine stagione fallisce.
E tu cosa fai?
Una follia. Non sono soddisfatto di come mi gestiscono e strappo il contratto con il Chievo.
Senza avere altre certezze?
Nessuna: ho seguito il mio istinto, ma ho fatto letteralmente un salto nel buio. Non avevo neanche i soldi per pagare la rata della macchina.
Torni al Lumezzane, dove ti volevano bene.
Esatto. Poi nel 2011 vengo ingaggiato dalla Ternana.
In Umbria tutto inizia benissimo.
Di nuovo metto insieme 33 presenze, segno anche 3 reti e e divento uno dei protagonisti della promozione in serie B.
E di nuovo la sfortuna si abbatte su di te.
Nella mia memoria ho questa immagine di quel periodo: l’elastico.
L’elastico?
Sì, perché nella vita ci sono momenti in cui la sfortuna ti trascina con così tanta forza, così indietro, che in realtà si produce un contraccolpo: tu non lo sai, pensi il peggio, e invece stai per essere lanciato in avanti.
Ma cosa succede?
Se avessi continuato a giocare non avrei capito cosa non andava. E invece mi rompo. Stai sei mesi con il crociato rotto, qualcuno pensa - di nuovo - che la mi carriera sia già finita, e invece sono lì che mi metto ad osservare.
E cosa hai visto?
Avevo bisogno di vedere e capire. Il mio rapporto con i tifosi, con i dirigenti, i dettagli nelle dinamiche della squadra... ad un certo punto realizzo che non potevo rimanere alla Ternana. Società ottima, ma non era il posto per me.
Avevi giocato solo sette partite.
Ecco un altro paradosso. Giochi un campionato pazzesco e non ti nota nessuno. Giochi solo sette volte, ma qualcuno ti nota, lo colpisci, e lui pensa: “Mi serve Pisacane”. Capisco che può sembrare improbabile, ma la vita è così. A me è accaduto.
È quello che ti è successo?
Esatto. Un giorno mi squilla il telefono: è il direttore De Vito, manager dell’Avellino.
Che aveva vinto il girone di Lega Pro.
Mi dice: “Stiamo andando a fare la supercoppa a Trapani, ti voglio con noi”.
Fantastico.
E mi fa: “Chi è il tuo procuratore?”. Il bello che non ne avevo uno, in quel momento.
Andiamo bene.
Allora dico a un mio amico dell’ambiente, Paolo Palermo: “Fammi un favore, puoi vedere cosa vuole? Dí che mi gestisci tu e chiedi tre anni di contratto, per non sbagliarti!”. Ero certo che avrebbero rifiutato.
E cosa risponde De Vito?
Ah ah ah. Non batte ciglio e risponde: “D’accordo. Facciamo tre anni”. Si vede che era destino.
È lì che incontri Massimo Rastelli, l’allenatore che ti avrebbe portato in A.
Arrivo ad Avellino nel luglio 2013 e vivo una stagione esaltante. Un anno sfioriamo i play off. L’anno dopo li giochiamo e restiamo fuori dalla A solo per la regola folle del “Miglior piazzamento”.
Cosa intendi per stagione esaltante?
Infiliamo una striscia di 5 partite in cui facciamo 13 punti battendo tutti: Spezia, Frosinone, Latina.. Solo in casa con la Ternana ci ferma un pareggio. Ma intanto io ero diventato un carro armato.
E con Rastelli cosa scatta?
Un bellissimo rapporto tra allenatore e giocatore. Un legame di fiducia che si è fortificato nel tempo, addirittura dopo una mia lite con un collega, che ora non voglio nemmeno ricordare.
Raccontami solo l’epilogo.
Il mister mi dice: “Questa domenica ti metto fuori squadra”. E io lo accetto. Quel lunedì avremmo giocato a Spezia, ma il compagno che doveva prendere il mio posto si lussa la spalle.
E Rastelli?
Mi chiama, con molto rispetto e mi dice. “Io ora ho bisogno di te. Ti va di giocare lo stesso?” Io gli rispondo: “Mister: sul contratto c’è scritto che io devo essere pagato. Non che devo giocare. Quello lo decide lei. E puó dirmelo quando vuole, anche un minuto prima!”.
È nata una grande amicizia.
È lui che mi vuole a Cagliari quando Giulini lo chiama per allenare in Cagliari in B. Tuttavia ho rischiato di andare a Cesena, perché lui mi dice: “Giocherò a quattro, mi servi ma da terzino”. E io non volevo.
Per fortuna non sei andato a Cesena.
(Ride). Qui Fabio si è fatto in due ed è diventato due giocatori diversi.
In che senso?
Nell’ambiente lo sanno tutti: io per fare il terzino ho perso 3-4 punti di massa grassa. Per giocare centrale devo avere un fisico, per giocare laterale dovevo averne un altro.
E come hai fatto?
Ero seguito da un nutrizionista. Mangiavo tanto, ma senza olio senza sale. E poi ho iniziato a giocare in modo diverso, mi sono reinventato.
Come?
Con la dieta mi ero alleggerito, ma avevo perso anche forza. E allora sono cresciuto di massa muscolare.
Poi torni nel tuo vecchio ruolo.
Nella seconda parte del campionato in una giornata di febbraio che non scordo, contro la Samp, finalmente ho la possibilità di farlo. Il caso...
Cioè?
Infermeria piena, come spesso capita, eravamo rimasti solo Bruno Alvez e io.
Avete giocato voi due.
Si! E da allora non mi sono mosso più.
Sei decisivo in serie B, ma è dopo la promozione che la tua storia diventa pubblica. Ricevi premi prestigiosi, diventi un personaggio nazionale, segni un goal pesantissimo. Addirittura diventa virale in rete la tua imitazione di Bruno Pizzul.
(Sorride). Quello perché Borriello mi fece un video e lo mise in rete. È che io la mia storia l’avevo già. La serie A ha solo reso tutto più importante.
Esce fuori la storia del calcio scommesse e vieni additato come modello per una tua scelta difficilissima e coraggiosa.
Nel 2011 quando ero al Lumezzane, il direttore sportivo del Ravenna mi offre 50.000 euro per far vincere la sua squadra nella partita che avrebbero dovuto giocare contro di noi. Io mi rifiuto e scelgo di denunciare.
E oggi cosa pensi?
Che io quel gesto lo avevo fatto quando non avevo nessuna certezza. Mi sembrava inconcepibile rispetto alla mia etica di calciatore.
Sono usciti libri su di te. Biografie.
Voglio citare quello di Franco Esposito, una parafrasi della canzone di Morandi: “Uno su mille ce l’ha fatta”. L’uno sono io.
E poi l’autobiografia.
Chiamiamola così! L’ha scritta però Antonio Martone, e si intitola la Favol... A di Pisacane.
Se ne va Rastelli e tutti dicono: “Adesso se ne andrà anche Pisacane”.
Balle. Avevo una stima enorme per il mister. Ma quando arrivó Lopez, ora lo posso dire, io mi sentivo amico.
Amico?
Un giorno lui ha spiegato: “Pisacane mi ricorda il mio modo di giocare”. È una volta al telefono mi ha detto: “Perché non prendi la maglia numero sei”?
Cioè la sua.
Già. E ti rispondo quello che ho detto a lui: ”Non oso”. Avrai capito che mi piace restare con i piedi per terra, sempre.
Cos’altro ti ha cambiato?
Ero fidanzato con Rosy, una ragazza del mio quartiere, con cui ci conoscevamo da quando eravamo piccoli. Ma ci eravamo persi quando ero andato a Genova.
Vi siete ritrovati.
Mia moglie abitava a 500 metri da casa mia, e ci piacevamo fin da bambini. Era destino. Un giorno, quando avevo 19 anni ci parliamo e ci mettiamo insieme.
E quando vi sposate?
Quattordici anni fa, quando ero alla Cremonese, faccio un passo decisivo.
Quale?
Decido di andare da suo padre, come, per fortuna, ancora si fa nelle famiglie del sud, e dirgli: “Vogliamo vivere insieme”.
E accettó?
Si. E Rosi iniziò ad abitare con me ogni due settimane, per quindici giorni.
Diventare padre ti ha cambiato?
I figli ti fanno assumere una responsabilità rispetto alla vita. Ti cambiano la testa. Io sono cambiato - in meglio - grazie a loro.
Fammi un esempio.
Il più banale. Mi piaceva terribilmente correre a 200 in macchina. Oggi non lo farei più.
Dici che non hai paura di nulla.
Se pensi che mi sono trovato in mezzo ad un fallimento sia con l’Ancona che con il Lanciano, capisci che avrei dovuto farmi benedire.
Il Guardian ti ha definito “giocatore dell’anno 2016”.
Devo confessare, molto onestamente che non ho fatto niente per diventare un esempio. Non fa parte del mio modo d'essere, sono un ragazzo semplice, così come mi vedete...
E chi è il predestinato, alla fine di questa storia?
Non è un superuomo. Chi crede di poter realizzare un giorno il suo sogno.
Sei diventato anche ambasciatore della Fifa.
(Pausa). Io non amo mettermi in mostra, come hai capito vivo solo per giocare.
Esagerato.
Ma no, è così! Se lo faccio è perché spero di poter essere una luce per chi sta nel buio.
E poi?
Perché non mi sono mai dimenticato di chi mi ha aiutato quando nel buio c’ero io.