ORTONA

Alessia, l’abruzzese profuga in patria 

Fuggì dalla guerra in Libia, dove viveva. Per il Tar di Pescara, l’ortonese Paolucci ha diritto ai benefici. La sentenza è un caso

ORTONA. In 48 ore era stata costretta ad abbandonare la sua casa, il suo lavoro, la sua nuova vita, per colpa della seconda guerra civile scoppiata in Libia nel 2014. Grazie a un contatto fornito dalla Farnesina era riuscita, assieme al figlio all’epoca quattordicenne, a raggiungere le coste tunisine via mare, dalle quali era ripartita per il porto di Civitavecchia. E dopo aver sfidato le milizie di Abu Bakr al-Baghdadi e dello stato islamico, una volta in Italia se l’è dovuta vedere anche con la burocrazia che le ha negato lo status di profugo equiparato. Per fortuna, ci ha pensato la sezione di Pescara del Tar Abruzzo, con una sentenza pubblicata lo scorso 5 giugno, a restituire un po’ di giustizia ad Alessia Paolucci, 40 anni, di Ortona, che nel 2013 si era trasferita a Tripoli per lavorare in una società di navigazione.
Il Tar, infatti, (Amedeo Urbano, che era ancora presidente al momento del ricorso, Alberto Tramaglini, consigliere, e Massimiliano Balloriani, estensore), ha accolto l’istanza presentata contro il Mistero dell’Esteri, che aveva negato il riconoscimento dello status ai sensi della legge 763 del 1981, e con esso i benefici giuridici ed economici che ne derivano. A rappresentare Alessia Paolucci nel giudizio amministrativo è stato l’avvocato Claudio De Gregorio, del foro di Pescara. A maggio del 2014 nel paese nordafricano erano scoppiati violenti scontri. Per questo le autorità italiane avevano contattato la donna invitandola, così come altri cittadini italiani, a lasciare la Libia. Nel luglio successivo, con il bombardamento dell’aeroporto internazionale di Tripoli la situazione era precipitata, ma Alessia Paolucci, non avendo in Italia un’alternativa lavorativa percorribile, aveva deciso di rimanere, ma i contatti con i funzionari della Farnesina che cercavano di farla desistere erano all’ordine del giorno. Nel gennaio 2015, dopo l’attentato al Corinthia Hotel, e la chiusura dell’ambasciata italiana a Tripoli, la donna si era convinta a partire. Tornata in Italia ha chiesto il riconoscimento dello status di profugo equiparato, ma si è vista opporre un rifiuto perché quella avvenuta in Libia «non era una operazione di evacuazione in senso stretto, essendosi trattato di un’operazione di alleggerimento volontario della presenza italiana», e soprattutto «a causa della carenza della documentazione prodotta, e in mancanza di specifiche indicazioni impartite dal Ministero dell’Interno». Motivazioni che il Tar ha fatto a pezzi, ricordando che in base alla normativa citata, «non servirebbe alcun decreto interministeriale per poter riconoscere la qualifica di profuga all’istante, poiché la ratio della norma, nel prevedere gli eventi di carattere bellico o politico quali elementi necessari e sufficienti a determinare il rimpatrio e il conseguente riconoscimento dello stato di profugo, è evidentemente quella di tutelare coloro che incolpevolmente, in un Paese straniero, si trovino in situazioni di criticità e pericolosità conclamate tali da giustificare, ai fini della tutela dei cittadini, il rimpatrio anche in assenza di un provvedimento dichiarativo della pubblica Amministrazione».