Buccilli: Abruzzo in difficoltà perché è stato abituato bene

8 Luglio 2007

L’ex presidente un anno dopo l’addio. «I dirigenti di un tempo tiravano fuori i soldi e non avevano problemi per l’iscrizione»

PESCARA. Otto anni di calcio professionistico condensati in una chiacchierata. Antonio Buccilli parla di tutto: dai problemi del pallone in Abruzzo ai giocatori passati per Chieti che si fanno onore in giro per l’Italia e all’estero. Del Chieti, nel suo ufficio, è rimasta una foto arrivata dall’Africa con ragazzi di colore con la divisa neroverde che espongono una scritta: “Grazie presidente Buccilli e sempre forza Chieti!”. Una storia chiusa male, quella tra la piazza di Chieti e Antonio Buccilli. Una ferita ancora aperta per entrambi, nonostante sia passato un anno dalla cessione della società a Di Stanislao e Ielo e dalla sua scomparsa dal calcio professionistico.

Buccilli, come va dopo un anno senza pallone?
«Abbastanza bene, senza stress, ma con qualche problema ancora da risolvere legato al vecchio Chieti».

Sta seguendo l’evoluzione del calcio abruzzese?
«Sì, ho notato difficoltà un po’ ovunque. Fino a qualche anno fa, i problemi di luglio erano l’individuazione del tecnico e la costruzione della squadra; oggi, invece, sono altri».

Ovvero l’iscrizione ai campionati.
«A Chieti, a Pescara, a Teramo, a Giulianova e a Lanciano, tanto per fare qualche esempio, c’era gente appassionata al timone della società. C’era gente che prim’ancora che emergessero dei problemi correva a porvi rimedio».

Ovvero?
«Problemi reali di iscrizione non ce ne sono stati perché i presidenti tiravano fuori i soldi di tasca propria per evitare che uscisse fuori il nome della società tra quelle in difficoltà».

Ora invece...
«E’ diverso».

Perché?
«La gente non sa più che cosa vuole. Il calcio, così come la società civile, è in continua evoluzione. I tifosi non si accontentano mai, vogliono sempre di più. E in mancanza di risultati contestano. Non c’è la pazienza di aspettare, si vuole tutto e subito. E gli imprenditori, quelli in grado di fare calcio, sono scoraggiati a tal punto da tenersi lontano da questo mondo».

In otto anni di calcio a Chieti qual è stata la gioia più bella?
«La promozione in C1 nella stagione 2000-2001. Ho ancora negli occhi lo spettacolo della finale play off contro il Teramo. Eravamo partiti per non soffrire e, invece, cammin facendo abbiamo dettato legge, con il Lanciano».

E la delusione?
«Ci sono stati dei momenti di grande esaltazione: il pareggio nel derby all’Adriatico, contro il Pescara, e il successo al San Paolo, contro il Napoli. E la domenica successiva appena 700 spettatori in casa. Quelli sono stati i momenti di maggiore delusione».

Come è entrato nel mondo del calcio?
«Ci sono sempre stato, prima da giocatore e poi da dirigente».

E nel Chieti come è entrato?
«Nell’estate del 1998 a seguito di un incontro con il compianto direttore sportivo Luigi D’Amario. Lui prima mi prospettò questa idea e poi mi portò l’allora presidente Albergo in ufficio. Il Chieti era in Interregionale e a seguito delle garanzie che ho fornito è stato rispescato in C2. Quelle stesse garanzie che oggi latitano...».

L’allenatore più bravo che ha avuto alle sue dipendenze?
«Piero Braglia e Dino Pagliari, anche se devo dire che hanno allenato squadre forti. Non a caso sia Braglia che Pagliari hanno conseguito brillanti successi ultimamente».

Qualche rimpianto?
«Sì, perché credo che sia nel primo anno di C1 che nel secondo si poteva fare qualcosa in più. Avevamo squadre per competere anche per posizioni di vertice. Non ci siamo riusciti per via delle false partenze».

Grosso è destinato al Lione.
«Mi fa piacere per lui. Era alla Renato Curi quando io ero dirigente. Lo conoscevo bene e nel gennaio del 1999 l’ho preso insieme a Malavolta. L’abbiamo pagato 50 milioni».

E quanto ha guadagnato con Grosso?
«Zero lire».

L’ha più sentito?
«Mai».

E’ vero che nel 2000 stava per passare all’Andria nella stagione della promozione in C1?
«Sì, il Chieti aveva un momento di flessione e durante il mercato invernale è nata questa ipotesi, perché ad Andria c’era Ortega che lo aveva allenato alla Rc Angolana. Io mi sono opposto al trasferimento e da lì si è incrinato il rapporto con l’allora ds Mauro Traini».

Poi, Grosso è andato via a parametro zero al Perugia.
«Solitamente i giocatori che non rinnovano il contratto vengono messi fuori squadra. Io non l’ho fatto perché la squadra aveva bisogno di Grosso che stava esplodendo e perché non mi sembrava giusto. Penso, comunque, che Buccilli e il Chieti abbiano dato tanto a Fabio Grosso».

E Quagliarella?
«A Chieti l’ha portato Giuseppe Tambone. Avevamo dato Biancolino all’Avellino e la Fiorentina doveva sbarazzarsi di questo attaccante talentuoso ma acerbo. E’ arrivato in neroverde e ha subito fatto gol».

I rapporti con i direttori sportivi?
«Sono andato d’accordo praticamente con tutti quelli che ho avuto alle mie dipendenze. Però, devo dire che generalmente i ds non sempre fanno gli interessi delle società per cui lavorano. Pensano a loro stessi».

C’è un’eccezione?
«Con Nicola D’Ottavio c’è stato un buon feeling. Ha portato a Chieti giocatori bravi. Ragazzi di talento che poi hanno fatto strada nel calcio».

In otto anni avrà pure commesso qualche errore.
«Uno a livello concettuale: mi sono messo a fare calcio da solo senza aiuto alcuno».

Nulla da rimproverarsi?
«Sono andato al di là delle possibilità mie e della piazza in cui ho fatto calcio. Ed è un peccato, perché era stato costruito un bel giocattolo. Mi dispiace che sia stato distrutto».

Adesso il Chieti 1922 di chi è?
«La maggioranza delle quote è di Di Stanislao (presidente del Lanciano, ndr) e soci. E mi sembra che sia ancora in vita».

Un dirigente che ha apprezzato nel corso degli anni?
«Scibilia, Angelucci, Quartiglia, Malavolta, gente appassionata che non si è mai tirata indietro e che ha ottenuto il massimo nel calcio».

Il calcio abruzzese è in difficoltà.
«E’ fisiologico. Per anni Chieti, Giulianova, L’Aquila, Teramo e Lanciano hanno lottato con Catania, Messina, Ascoli e Napoli, piazze abituate alla serie A. La gente non ha capito che le nostre squadre stavano dando il massimo e che andavano sostenute. E, invece, critiche e contestazioni. A volte più che contro gli avversari le maggiori energie venivano sprecate durante la settimana per andare a parare i colpi di chi seminava zizzania. Ci vorrà tempo per risalire la china».