Il poeta e la gastronomia abruzzese, pareri divisi sulla voracità ma di certo amava i sapori della sua terra

D’Annunzio ghiottone. Anzi no

Enrico Di Carlo: quella volta che il Vate non sponsorizzò la pasta De Cecco

«Gabriele D’Annunzio non tenne mai in considerazione la proposta di sponsorizzare gli spaghetti della ditta abruzzese De Cecco, nonostante che lo stesso fondatore, Filippo De Cecco, si fosse rivolto a lui tramite il deputato Pasquale Masciantonio. In una lettera dell’11 gennaio 1912, il politico scrisse a D’Annunzio in Francia: «Hai ricevuto i maccheroni? Sono proprio quelli di Fara San Martino, impastati con l’acqua di sorgente del Verde e asciugati all’ombra della Maiella. Filippo De Cecco in cambio di un tuo verso abruzzese te li manderebbe per tutta la vita». Dalla Francia, però, non arrivò nessuna risposta, molto probabilmente perché in quello stesso periodo i rapporti di amicizia tra Masciantonio e D’Annunzio si erano guastati per divergenze politiche». E’ una delle tante curiosità che emergono dal libro di Enrico Di Carlo «Gabriele D’Annunzio e la gastronomia abruzzese» (Verdone editore, 104 pagine, 10 euro) che sarà presentato oggi alle 18.30 nel ridotto del Teatro Marrucino a Chieti.

Tra i tanti aspetti della vita di D’Annunzio uno ancora poco esplorato è sicuramente quello relativo al cibo. Anche perché, come sottolinea Di Carlo (uno degli studiosi più attenti del Poeta pescarese), sul D’Annunzio «mangiatore i pareri sono diversi. Mentre Tom Antongini così si esprime: “Mangia voracemente e abbondantemente”, padre Semeria scrisse: “A tavola l’osservai sempre meridionalmente sobrio. Non vino e molto meno liquori; poca carne e un po’ di verdura”. Di certo è che egli fu buongustaio».

Sul dilemma D’Annunzio ghiottone Di Carlo risponde: «Sì, cioè no, o forse in parte. E’ pur vero che quando partecipava ai banchetti ufficiali mangiava poco o nulla. Ciò accadeva perché solitamente vi arrivava dopo aver desinato, magari in solitudine. Sembra, infatti, che si vergognasse di farsi vedere e poi non poteva permettere che il cibo lo distraesse da altre più proficue occupazioni. (...) Nella solitudine della sua dimora, sulle rive del Garda, l’anziano Comandante si sottoponeva a lunghi e soventi digiuni. Ne dava notizia alle amiche, agli amici e alle amanti», ma a Luisa Baccara, nel 1930, scrive: «Col prosciutto mi furon serviti caviale nero e fegato d’oca grassa: le due cose mi han fatto appunto soffrire per averne mangiato senza misura nel primo impeto dell’amorosa fame». E ancora: «Ho mangiato come un feroce lupo della Maiella. Ho ingoiato tutte le triglie dell’Adriatico. E sono stato molto male, dopo».

Di Carlo soddisfa molte curiosità sul rapporto di D’Annunzio e il cibo, dagli anni abruzzesi a quelli del Vittoriale, dal comandante Parrozzàno a un interessante e inedito indice di gastronomia dove vengono forniti, in ordine alfabetico, tutti i riferimenti agli alimenti, da acciughe a zuppa rustica. «D’Annunzio», avverte Mimmo D’Alessio, dell’Accademia italiana della cucina, nell’introduzione, «arrivava a cogliere dai profumi del cibo l’essenza del gusto e, descrivendoli, riusciva a stimolare le papille gustative persino degli anoressici cronici».

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