Fini “cittadino” d’Abruzzo «Qui ti dicono buongiorno»

L’ex leader di An e presidente della Camera racconta i soggiorni sull’Altopiano «Si recuperano i rapporti umani. E i vini sono speciali, ma poco conosciuti»

ROCCA DI MEZZO. Studia il fenomeno Islam, dice che la destra oggi è più protesta che proposta, non pensa a un ritorno sulla scena, ma dice che si può far politica in mille modi, anche da cittadino. E sulle unioni civili non cambia idea: favorevole, adozioni a parte. Berretto nero Aeronautica militare e scarponi, il presidente emerito della Camera Gianfranco Fini fa quattro passi in piazza Principe di Piemonte a Rocca di Mezzo, dove ha comprato casa. Caffè e giornali, un salto al negozio di alimentari dove c’è «quel formaggio buono», poi una chiacchierata col Centro sul mondo e sul piccolo centro dove arriva, da Roma, in un’ora e venti di viaggio. Ogni volta che può.

Perché Rocca di Mezzo?

«In modo casuale, ma fortunato. Amici che hanno i figli che frequentano la stessa scuola delle mie bambine ci hanno invitato a venire per conoscere il paese, per la comune passione, che io non ho, per lo sci, e da lì è nato tutto. Qui si sta bene e si recuperano i rapporti umani, a partire dal buongiorno alla mattina che chi vive nelle grandi città sa che non è ovvia. Una dimensione meno stressante. Ideale per studiare, almeno nella situazione in cui mi trovo attualmente: scrivere, studiare, leggere. Qui vivi il tempo in modo diverso».

Ricaricare le batterie per tornare in pista?

«L’impegno politico dovrebbe essere la dimensione di ogni cittadino, se per politico ci si riferisce all’impegno per la polis, la comunità civile. Puoi far politica in mille modi, già se sei un buon cittadino fai politica, puoi aggiungere l’impegno nel volontariato, nel mondo culturale, nell’opera professionale. Se invece per politica s’intende la presenza negli organismi dal consiglio comunale fino al parlamento, in questa fase, è una prospettiva che non do a me stesso. Dopo 30 e più anni di presenza ininterrotta in parlamento e avendo avuto delle responsabilità, credo che si possa e si debba continuare a far politica in una dimensione diversa».

Quale?

«Sto approfondendo alcune questioni nell’ambito di un’associazione che ho costituito. Argomenti di carattere politico, ma in un’ottica un po’ più strategica. Nell’ultimo anno oggetto di studio è il rapporto col mondo musulmano, grande questione di tutto l’Occidente al di là dell’emergenza terroristica reale da affrontare. Un Paese come il nostro non ha alle spalle un passato di potenza coloniale, non ha conosciuto il problema dell’integrazione delle seconde e terze generazioni. Continuiamo tutti a porci il problema del controllo dell’immigrazione, ma è il primo tempo di una partita che si gioca nella capacità o meno di integrare in una società come quella italiana coloro che arrivano qui piccolissimi o addirittura nascono qui, un tema complesso riferito all’Islam».

Ius soli sì o no?

«Il modello statunitense dello ius soli automatico, che se nasci anche casualmente negli States sei cittadino americano, non è idoneo per l’Italia. Io ragiono sul cosiddetto ius soli temperato per cui di recente è stata approvata una legge. Se rimani stabilmente in Italia per almeno 11 anni, in presenza dei genitori o di un tutore, è evidente che non solo conosci la lingua, parli il dialetto, fai il tifo per la squadra di calcio dove ti trovi. Se dopo 11-12 anni questi ragazzini si sentono cittadini italiani vietarlo può portare a un sentimento di estraniazione. L’integrazione è qualcosa di molto più complesso che dire: fermati al semaforo rosso, non gettare l’immondizia a terra. L’integrazione è considerare la società in cui vivi, perché ci sei arrivato, o in cui sei nato, come la tua patria, anche se non è la terra dei tuoi padri. Devi riconoscerti nei valori di fondo di questa società e questo crea delle questioni, ancor di più nel rapporto col mondo musulmano. Chi dice di avere la bacchetta magica per risolvere i conflitti o si illude o prende in giro gli altri e se stesso. La situazione si stabilizzerà, prima o poi? Noi occidentali siamo stati troppo presuntuosi e frettolosi ritenendo che, cadute le dittature, nascesse la democrazia. Le merci si esportano, la democrazia no. Stabilizzare aree che mai hanno conosciuto la democrazia è difficile, se non impossibile».

E come ci si difende dal terrorismo?

«Non esiste la sicurezza assoluta perché hai a che fare con una tipologia di terrorista molto diversa rispetto a quella più feroce che abbiamo conosciuto. L’obiettivo del kamikaze non è di uccidere, ma di morire uccidendone quanti più possibile. La realtà italiana è più tranquillizzante di quella di altri paesi. Qui non ci sono reti logistiche di supporto perché non abbiamo vissuto la fase della seconda e terza generazione, sono tutti arrivati negli ultimi 20-30 anni e sono molto più monitorati di quanto si pensi. Provai a firmare, quando ero al governo, un’intesa con la religione musulmana, ma quando individui un interlocutore un altro ti dice che quello non è abilitato a firmare a suo nome. Il problema dei controlli è serio, ma la premessa è capire cosa vuol dire integrare. La politica dovrebbe essere politica e non propaganda. O hai un retroterra culturale o ti limiti a dire: “rimandiamoli a casa”, “alziamo i muri”. Magari prendi il voto di chi non ne può più, ma non risolvi nulla».

C’è ancora posto per una destra di governo?

«Salvini rappresenta una proposta di destra, ma inevitabilmente minoritaria: 10-12%, al 20 non ci arriverà mai. Fortemente identitaria, ma costruita più sul contrasto, sul rifiuto, che sulla proposta. Questa versione salvinista del leghismo detta la linea a quel che è rimasto del centrodestra. L’opposizione punta sul contrasto radicale. Se a ciò si aggiunge la fine dell’assetto bipolare e si aggiunge Grillo ci troviamo di fronte a una realtà mai vissuta in Italia. In tutto questo, la socialdemocrazia o sinistra di Renzi si trova nella condizione di governare senza doversi confrontare con l’opposizione. Il monocameralismo, oggi, va bene. Ma se si guarda solo al Senato fuori dal contesto generale si rischia di essere miopi. Se passa il referendum con l’unica Camera che dà e toglie la fiducia, eletta con l’Italicum, la legge che col 30-35% del voto dà il 65% della rappresentanza parlamentare, si ha un effetto distorsivo. Con il combinato disposto del Senato e della legge elettorale rischi di avere una democrazia fortemente autoritaria. La democrazia dev’essere decisionista, detto da destra, ma dev’essere pure controllata. Il paradosso è che l’unico tipo di controllo continuerebbe a essere esercitato dalla magistratura. Manca all’appello qualche milione di elettori di centrodestra che non vota più. Ci sono Salvini, Berlusconi che fa l’alleato di Salvini e nulla più, Grillo che fa troppa demagogia, Renzi che non convince e tanta gente se ne sta a casa».

Il ruolo delle Regioni?

«Si parla di tagli alla spesa pubblica, ma il rubinetto aperto è quello delle regioni. Vogliamo rivedere in senso critico il federalismo e il regionalismo? Limitare il ruolo delle regioni è impresa titanica, ma per contenere la spesa occorre un’opera di disboscamento di burocrazie più che di privilegi».

Abruzzo o Abruzzi?

«Certamente ancora Abruzzi con formula dannunziana. L’Aquila e Pescara sono diverse: è inevitabile. La realtà italiana è municipale, siamo il paese dei guelfi e dei ghibellini. Parlare di identità regionale è utopia. Si possono avere interessi comuni, e allora la realtà è macroregionale. Il Reatino è molto più legato all’Aquilano e alla bassa Umbria che a Roma. Latina e Rieti sono come Montesilvano e Rocca di Mezzo. Per questo bisogna riportare competenze primarie ai Comuni, favorendo gli accorpamenti. L’Abruzzo non è più il Meridione della stagione di Gaspari e Natali, ma è regione-cerniera. Semmai c’è da riflettere sul modello di sviluppo che deve sfruttare le eccellenze, partendo dal turismo».

In che modo?

«La competenza sul turismo è regionale. Immaginiamo che un assessore vada in giro per il mondo a promuovere la sua terra. Ma uno statunitense non dirà mai “vado in Abruzzo” a meno che il bisnonno non sia partito da qui. Come noi non distinguiamo sulla cartina il North Carolina dallo Utah, così loro non distinguono la Spagna dalla Polonia. Un turista americano fa tappa a Roma, Venezia, magari Firenze. Perciò il turismo dev’essere asset dello Stato e non delle regioni, se si vuole conquistare il mercato dei russi, dei cinesi e tra un po’ degli indiani».

A un giovane consiglierebbe di studiare e partire o di imparare l’arte e restare?

«Non esiste la ricetta buona per tutti. Si deve fare ciò che si crede di poter fare e magari mettere i giovani nelle condizioni di imboccare la strada che reputano più confacente con la propria natura, con quello che credono di saper fare e voler fare. Il mito per cui si doveva per forza arrivare all’università è svanito. Abbiamo il minor numero di laureati a livello europeo e abbiamo perso l’apprendistato come accesso al mondo del lavoro. Non ci sono più i ragazzi a bottega. Eppure le “arti e mestieri” non vanno cancellate. Qui ho visto un uomo di 80 anni che si è messo a rifare una porta. Scomparso lui, chi lo farà più? Quelle mani sono un capitale da preservare».

Vino e cucina possono aiutare?

«L’Abruzzo in questo campo ha fatto tanto e creato occupazione nel settore. Alcuni eccellenti vini abruzzesi si conoscono solo se stai qui per un po’ perché a volte non escono neppure dalla dimensione provinciale. Qui ho scoperto e apprezzato il vitigno Pecorino».

Dieci anni fa moriva Nino Sospiri.

«Nino è un dolore ancora vivo. Oltre al deputato e al dirigente c’era un’amicizia personale. E con lui ricordo un altro amico che ha vissuto a Roma e incarnato la caparbietà tipica degli abruzzesi: Teodoro Buontempo, di Carunchio. Quando penso al carattere abruzzese ho davanti queste due figure, diverse tra di loro».

L’Aquila a sette anni dal sisma, realtà e prospettive.

«Purtroppo non tornerà mai quel che era, ma l’auspicio è quello di risorgere. Il processo, con tutte le difficoltà, è in atto. Spero che un giorno sia consentito agli aquilani e ai loro figli di parlare di quella tragica notte non solo come un ricordo che rimane impresso ma come di una ferita cicatrizzata, che magari ti lascia il segno, ma il trauma è superato. Rifai le case, ricrei il lavoro, ma il ricordo della tragedia collettiva rimane».

Più amici o più nemici in politica?

«La categoria degli amici in politica non esiste, più che altro si dovrebbe parlare di lealtà. Marziale diceva “nella res publica la gratitudine è il sentimento della vigilia”. Aveva capito tutto».

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