Garibaldi, il generale carismatico

Garibaldi, protagonista concreto dell’unificazione raccontato da Francesco Sanvitale
Dopo la prima puntata, giovedì scorso, dedicata ai protagonisti del Risorgimento, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, proponiamo oggi un’intervista a Francesco Sanvitale su Giuseppe Garibaldi, il protagonista dell’Impresa dei Mille. Sanvitale, musicologo e storico, ha in uscita per la Edt di Torino, il volume «L’altra faccia del mito. Il Risorgimento, Garibaldi e la musica».
Chi era veramente Garibaldi? Ed è vero che ebbe tante donne?
«Va detto subito che in fatto di donne Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele, pur con diversi atteggiamenti, si distinsero per un’attività sentimentale e amatoria non indifferente. Sì, persino Mazzini, con quel volto ascetico, in una vita di povertà e di totale dedizione alla causa amò riamato più di una donna. Ma se lui e Cavour non si sposarono, Garibaldi lo fece tre volte e Vittorio Emanuele due. Dei tre matrimoni di Garibaldi uno fu per amore, per grandissimo amore, il primo, con Anita la bruna ed energica brasiliana del Rio Grande do Sul; il secondo fu frutto di una cotta per una ragazza di trent’anni più giovane di lui e durò il tempo della cerimonia e una mezzoretta d’improperi; il terzo con Francesca Armosino fu un’unione d’affetto e grande devozione da parte di lei e di rispetto e riconoscenza da parte di lui: e pur mancando la passione Garibaldi la rese madre tre volte (ed aveva ormai tra i 60 e i 70 anni)».
E a parte i tre matrimoni ufficiali?
«Eh, ci vorrebbe il catalogo di Leporello: belle o brutte, nobili o plebee, sposate o libere, bastava che mostrassero un po’ di interesse perché lui diventasse subito affettuoso, premuroso, a volte insistente. E’ proprio il caso della seconda moglie la nobile e giovanissima Giuseppina Raimondi che dopo un focoso corteggiamento cedè sposando Garibaldi il 24 gennaio 1860, ma alla fine della cerimonia il Generale fu raggiunto da un biglietto che rivelava come la ragazza fosse già incinta di un suo ufficiale. Garibaldi chiese spiegazioni, capì che era vero e l’abbandonò gratificandola di epiteti che possiamo immaginare. Va detto però che mentre richiedeva la sua mano il 3 settembre 1859, il 10 scriveva all’aristocratica tedesca Speranza von Schwartz di raggiungerlo a Bologna, mentre a Caprera l’attendeva la domestica Battistina, incinta di lui e che gli avrebbe dato presto una bambina. Tutto questo tra la seconda Guerra d’Indipendenza e la preparazione dell’Impresa dei Mille. Va detto però che Garibaldi aveva un’alta concezione delle donne e, a suo modo, le rispettava. Era il suo fascino che le conquistava e lui, che pure era schivo d’onori e prebende, era molto vanitoso. Forse la morte di Anita, il suo grande amore, la donna che combatteva insieme a lui e che morì in seguito agli strapazzi fuggendo da Roma dopo la caduta della Repubblica del 1849, a lasciargli un vuoto sentimentale riempito da frequenti passioni ma effimere e poco coinvolgenti. Ebbe quattro figli da Anita, tre da Francesca Armosino e una dalla domestica Battistina: 8, quelli ufficiali e riconosciuti, per altri, e ve ne furono, resta il mistero».
Si può affermare che la vita di Garibaldi fu condizionata dalle donne?
«Direi proprio di no. Uomo dalle energie fisiche e intellettuali fuori dal comune, trovò tempo di fare un numero straordinario di cose. Piuttosto non fu un padre molto attento: rimasto vedovo a poco più di 40 anni con tre figli da 2 a 9 anni (Rosita era morta a 3 anni) li fece vivere con amici e parenti. Menotti, il primo, frequentò per concessione di Carlo Alberto un’accademia militare piemontese. Solo gli ultimi tre figli e specialmente Manlio, l’ultimogenito, ebbero a Caprera le cure di un padre amoroso, ormai vecchio, ritiratosi dalla vita militare dopo la guerra Franco-Prussiana nel 1870 e da quella pubblica subito dopo».
Quale fu l’apporto di Garibaldi all’Unità d’Italia?
«Si può dire che dei quattro personaggi che andiamo esaminando, ognuno ebbe un ruolo fondamentale, a Garibaldi però assegnerei la dimensione più carismatica e, dal punto di vista pratico, con la conquista del regno delle Due Sicilie, anche la più concreta. Egli guadagnò alla sua persona una notorietà e un rispetto già con le leggendarie gesta in America Latina che lo precedettero quando tornò in Italia nell’aprile del 1848: era già amato dagli italiani e temuto dalla casta politica e militare. Tenuto sempre ai margini in tutte e tre le Guerre d’Indipendenza, vinse le sue battaglie conducendo sempre un’armata di volontari».
E’ una sottolineatura importante.
«Certo, Garibaldi, che era tutto meno che un guerrafondaio, anzi odiava la guerra, affermava che essa non poteva essere un valido mezzo di risoluzione tra le controversie internazionali, e che era ammissibile solo se condotta da un popolo oppresso contro l’oppressore. Volle comandare solo eserciti di volontari. Richiedeva motivazioni ideali ai suoi uomini ed è per questo che, come abile comandante di forze pur esigue ma convinte e maestro nei colpi di mano e nell’imprevedibilità dei suoi movimenti sul terreno di guerra, vinse battaglie che nessun generale di carriera avrebbe saputo vincere».
E della sua adesione alla Massoneria cosa dice?
«Garibaldi fu affiliato alla Massoneria quando era in America latina. La sua visione laica della società, lo spirito democratico del suo pensiero politico, la visione di un orientamento liberal-democratico nella vita politica italiana, il suo acceso anticlericalismo, ne fecero un convinto aderente, fino a diventare Gran Maestro».
Come si può interpretare l’Impresa dei Mille a oltre 150 anni di distanza?
«E’ una delle pochissime, se non l’unica, vicenda bellica che entrò nel mito mentre si svolgevano gli avvenimenti. Non si dovette attendere la storia perché i Mille raggiungessero la leggenda ma dall’11 maggio, giorno dello sbarco a Marsala, l’eco di ciò che avveniva in Sicilia interessò il mondo intero che in tempo reale seguiva i fatti anche perché il Times, Le Figarò, il New York Times e giornali belgi o tedeschi, polacchi, bulgari, rumeni, russi, scandinavi avevano mandato reporter, uno per tutti Alessandro Dumas padre, o riprendevano le notizie dalle maggiori testate internazionali. E così i Mille, partiti da Quarto diventarono presto 20 mila e fino a 40 mila (alla battaglia del Volturno) ormai dopo la presa di Napoli perché coi siciliani ingrossavano le truppe garibaldine volontari inglesi, ungheresi, bulgari, polacchi, persino tedeschi. E mentre Garibaldi avanzava si scrivevano in diretta libri in spagnolo, francese, inglese, si componevano pièce teatrali, opere liriche, operette, balletti, romanze, canzoni, si dipingevano quadri, celeberrimi quelli del pittore garibaldino Gerolamo Induno, quasi istantanee, riprodotti su riviste e rotocalchi in pregevoli incisioni».
Gramsci anni dopo l’Unità criticò il fatto che le classi contadine furono estranee alle battaglie risorgimentali.
«Certo a 150 anni dall’Unità resta sospeso questo giudizio secondo il quale fu una elitè aristocratica borghese e intellettuale a volere il Risorgimento e a promuoverne le azioni con il fine unitario. Ma se leggiamo con attenzione proprio Antonio Gramsci che all’argomento ha dedicato profondi studi, vediamo che il discorso è molto più articolato. Che contadini e proletariato urbano emarginato fossero nell’impossibilità di dare un’adesione a un movimento che non comprendevano essendo di fatto ostaggi di una pesante influenza della chiesa che, specie al Sud, era tra le più retrive e reazionare, è un dato di fatto. Ma quando a queste classi sociali si riusciva a dare una motivazione come fece Garibaldi in Sicilia, le cose ebbero un diverso andamento. Certo per i più libertà, unità significavano pane, dignità, riscatto dalla condizione feudale, e non avevano accezioni politiche. Il fenomeno del brigantaggio e la feroce repressione con l’entrata in vigore delle leggi Pica, il nobile avvocato aquilano, che fornì all’esercito il mezzo legale per stroncare la guerriglia delle bande armate, non è una pagina luminosa dell’Italia postunitaria. Ma anche questa pagina va letta senza faziosità: le colpe piemontesi sono un fatto, ma il brigantaggio non fu fenomeno nato contro la Stato unitario».
Garibaldi come giudicò l’azione del governo nei confronti del Sud, che lui aveva recato in dono a un re ingrato e rozzo?
«Male, ne fu addolorato e condusse gli ultimi suoi anni a Caprera disperato per come si era tradito il grande slancio della sua impresa e in generale l’ideale risorgimentale. Arrivò a confessare di essere sicuro che se fosse tornato in Sicilia coloro che l’avevano acclamato come liberatore, che gli avevano chiesto di battezzare i figli, che avevano composto canzoni sulle sue gesta, ora l’avrebbero preso a pietrate. Così non fu perché quando nei primi mesi del 1882 andò nell’isola per celebrare il sesto centenario del Vespri Siciliani venne accolto da manifestazioni deliranti. Rientrato a Caprera dopo poche settimane morì il 2 giugno. In fondo la politica del nuovo Stato era stata ingrata con lui come con i cafoni del sud. Gli spararono ad Aspromonte nel 1862 conducendolo poi nel carcere di La Spezia; lo abbandonarono nel 1867 a Mentana nell’ennesimo tentativo di liberare Roma; alla presa di Roma nel 1870 tennero nelle retrovie Bixio per il timore che qualche merito di quella scaramuccia potesse andare a un garibaldino. Nella sua vita fu arrestato dai carabinieri 22 volte. Rifiutò titoli nobiliari, decorazioni, pensioni, somme di denaro e castelli, tanto che la povera Francesca Armosino tagliandogli i capelli e le unghie, per tenere in piedi la casa di Caprera e per sopravvivere con la famiglia, li faceva vendere agli ammiratori di tutto il mondo».
E’ un ricordo triste, il suo.
«No. E’ il suo mito che ne fa ancor oggi un personaggio vivo. Il suo nome e il suo Inno furono pronunciati e cantati dai socialisti e dai democratici italiani per decenni. Durante la Resistenza le Brigate organizzate dei partigiani assunsero il nome di Brigate Garibaldi a cominciare dai combattenti contro i fascisti di Franco nella guerra civile spagnola. In Inghilterra, in Argentina, in Brasile, in Uruguai, negli Stati Uniti d’America (Lincoln voleva affidargli il comando di un’armata unionista durante la guerra di Secessione), in Bulgaria, in Ungheria è ricordato in ogni modo. Garibaldi è il personaggio mondiale cui sono state dedicate il maggior numero di medaglie commemorative dal 1846 a oggi. Tra i soggetti più celebrati delle belle e costose statuine in ceramica Stafforshire, c’è il nostro a piedi e più spesso a cavallo. La casa vinicola Pellegrino di Marsala produce un ottimo Garibaldi Dolce. La bibliografia garibaldina, in oltre 20 lingue, giapponese compreso, è smisurata e l’ispirazione suscitata dal personaggio nella musica oltre che smisurata ai suoi tempi è ancora viva ai nostri giorni se un gruppo brasiliano di musica rock-pop si chiama Garibaldi e il suo pezzo più conosciuto è la Garibaldi Lambada. Ma i nostri cantautori e gruppi non sono stati da meno: da Bruno Lauzi, Giorgio Gaber, Gli Statuto fino al «Garibaldi innamorato» di Sergio Caputo che andò a Sanremo nel 1987».
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