cittadino onorario

Il giudice Di Matteo: "Abruzzo a rischio mafia"

Il magistrato antimafia a Pescara per ricevere la cittadinanza onoraria di 9 comuni e salutare gli studenti riuniti all'Aurum

PESCARA. «L'Abruzzo è una regione a rischio di infiltrazioni mafiose anche per la contiguità geografica con aree ad alta intensità criminale come Puglia, Calabria e Campania. Non sono in grado di fornire notizie dettagliate, non avendo lavorato in Abruzzo, ma il primo passo per infiltrarsi è sempre quello dell'economia, attraverso la frontiera degli appalti pubblici e l'Abruzzo ha già assistito, come hanno dimostrato alcune intercettazioni, ad alcuni tentativi di infiltrazione negli appalti per la Ricostruzione». È il monito lanciato a Pescara dal giudice antimafia Nino Di Matteo rispondendo alle domande degli studenti di 18 istituti della provincia. «Nessuna zona del Paese è immune dalle infiltrazioni mafiose - ha proseguito il magistrato - e anzi le regioni culturalmente più lontane sono a rischio più elevato, perché considerate più facili da penetrare».

Il magistrato della Procura di Palermo è stato il protagonista dell'iniziativa pubblica "Dalla parte della legalità" nella sala d'Annunzio dell'ex-Aurum di Pescara. Nove Comuni abruzzesi gli hanno consegnato la cittadinanza onoraria. Di Matteo, che ha istituito alcuni dei principali processi contro la mafia ed è per questo sottoposto a misure di sicurezza straordinarie, è stato nominato cittadino onorario di Pescara, Chieti, Montesilvano, Spoltore, Città Sant'Angelo, Bucchianico, Miglianico, Mosciano Sant'Angelo e Pineto.

Durante il suo intervento Di Matteo ha toccato diversi temi, in particolare quello del rapporto tra politica, giustizia e mafia. «Una parte significativa della politica vorrebbe minare l'indipendenza della magistratura, per ridurla ad un organo collaterale al potere politico e soprattutto a quello esecutivo, ma questa sarebbe la fine del principio della separazione dei poteri», ha detto agli studenti. «Sento parlare di opportunità dell'azione penale, ma io conosco soltanto la doverosità dell'azione penale - ha proseguito il magistrato palermitano -. Non è una guerra tra magistrati e politica, i giudici non fanno la guerra ai politici, ma la politica deve smettere di delegare completamente il controllo della legalità ai magistrati».

E ancora sul ruolo dei politici nella lotta alla mafia. «La politica si riporti in prima linea nella lotta alla mafia: sindaci e amministratori hanno la possibilità di chiudere la porta in faccia ai mafiosi, e di sapere quali interessi e personaggi sono coinvolti ancora prima che certi fatti diventino reato. Si denunci prima che questi episodi diventino materia per carabinieri o polizia», ha spiegato il giudice antimafia. «Per anni la politica ha considerato la mafia elemento di esclusivo interesse penale, delegato alla giustizia penale, mentre nel passato ci sono stati partiti politici che hanno caratterizzato la loro lotta anche nelle relazioni parlamentari, come fece Pio La Torre, che prima ancora che intervenissero i giudici, nella relazione di minoranza denunciò con nomi e cognomi gli esponenti del potere mafioso. Quella è la vera antimafia».

Di Matteo ha concluso rimarcando come «sia nel dna della mafia la ricerca di rapporti con la politica, le istituzioni economiche, finanziarie e il mondo delle professioni, che risultano fondamentali per il consolidamento del potere criminale. Ma purtroppo lo Stato e le istituzioni politiche non hanno ancora dimostrato coi fatti di voler rescindere definitivamente quei legami. Ecco perchè c'è stata qualche vittoria ma non è ancora stata vinta la guerra».