Internet batte telecrazia, la vittoria nei referendum

Domenica pomeriggio, a risultati referendari ancora da acquisire, già ci si sbellicava davanti all'ultimo video messo in Rete, una rivisitazione in chiave non propriamente berlusconiana di una scena del film «L'aereo più pazzo del mondo».

Quale miglior suggello per la prima campagna per il voto che ha avuto la Rete come principale palcoscenico? Senza l'universo digitale - che, si badi bene, non è il digitale televisivo terrestre dominato da Rai e Mediaset, geneticamente ostili, con l'eccezione di RaiTre, ai quattro referendum - i sì infatti non ce l'avrebbero fatta. Soprattutto, i promotori dei quesiti avrebbero fallito l'obbiettivo quorum, come puntualmente si verificava da 16 anni.

E se molti milioni di italiani hanno trovato sulla Rete i dati e le suggestioni sulla base dei quali sono poi andati a votare, allora è vero che non basta più mettere il bavaglio alle televisioni, com'era invece accaduto in passato, per impedire ai cittadini di essere informati e, dunque, di avere gli strumenti per esprimere il proprio giudizio.

Questa è la svolta. Berlusconi non «buca» più il video, disporre delle tv non assicura il consenso: così la telecrazia forse è davvero finita. Quanto è accaduto in queste ultime due settimane è nell'esperienza di chiunque frequenti la Rete. Buona parte dei 27 milioni di italiani che accedono a Internet (Audiweb, aprile 2011) è incappata almeno una volta in un video che spiegava le ragioni dei quattro sì, in un appello di artisti e scienziati, in un appuntamento di discussione e confronto online. Formidabile è stato l'apporto di Facebook e Twitter. Sono infiniti i gruppi, gli eventi, le catene di commenti che hanno coinvolto la fetta più giovane dei 18 milioni di sottoscrittori italiani del network fondato da Mark Zuckerberg.

L'iniziativa di Repubblica.it di far disegnare ad Altan un bottone con lo slogan «Io vado a votare: passaparola» è stato consigliato su Facebook da 64 mila persone, che l'hanno visto, scaricato, stampato e infine condiviso con milioni di amici. I partiti e i gruppi per il sì hanno capito che la gente da convincere era quella che sta nelle strade, nei negozi, negli uffici, nei siti, su YouTube, nei social network. Bisognava raggiungerli lì. Il Tg1 di Minzolini parla alla parte anagraficamente più anziana e politicamente più arretrata del paese, mentre su Internet ci stanno le persone che lavorano o cercano disperatamente un lavoro, le donne, gli uomini, i ragazzi che sanno che non si può più lasciare che il paese sia guidato da una gerontocrazia, per età o per anzianità di potere che sia.

In molti casi l'organizzazione è venuta dalla base, scavalcando i vertici. Queste, per esempio, le indicazioni di un circolo in Umbria: «Condividere sul proprio profilo Facebook la pagina del sito dedicata al referendum; inviare una mail a tutti i propri contatti sempre con il link alla pagina del sito; inserire nel proprio status Facebook la seguente dicitura: secondo i sondaggi il 60% degli italiani non sa che il 12 e 13 giugno si voteranno i referendum. Questo significa che tu dovrai trovarne almeno quattro, informarli e portarli a votare sì».

Esattamente quanto trenta o cinquant'anni fa facevano i militanti del Pci con il porta a porta e quelli della Dc con l'aiuto del parroco. Sarebbe bello lasciare, da adesso, lo schermo tv ai politici che, nel tentativo di uscire dall'anonimato, continuano a ricorrere alla provocazione che spesso diventa stupido eccesso (una fedelissima del premier ospite da Emilio Fede, la bresciana Viviana Beccalossi, giorni fa ha chiarito che la disturba molto sentir cantare «Bella ciao»: merita una risposta?). Sarebbe bello ma non si può. Bisogna difendere ogni luogo dove si fa comunicazione, dalle tv ai giornali, dalle radio a Internet. Perché ciascuno di essi sia palestra di dibattito aperto, non obitorio di quella democrazia conquistata da chi, cantando «Bella ciao», rischiava la vita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA