La rivolta dell'Aquila

L'insurrezione che anticipò la «primavera dei popoli»
L'insurrezione aquilana del 1841. Sì, c'è un prologo tutto abruzzese che annuncia e prelude alla irripetibile stagione del Risorgimento italiano, quella «primavera dei popoli» dell'anno di grazia 1848 che con le «Cinque giornate di Milano» e la rivolta di Brescia la «leonessa», e poi di Venezia e la Repubblica romana, diede il via alla fiammata patriottica indipendentista.
E' il professor Walter Cavalieri, docente di storia e scienze umane al liceo scientifico dell'Aquila, a rinfrescarci la memoria su un episodio mai entrato nei libri di scuola.
I fatti dell'Aquila del 1841, l'insurrezione contro Ferdinando II di Borbone, qual è la storia di questo episodio poco conosciuto, professore?
«L'insurrezione dell'Aquila segue di pochi anni la rivolta della città di Penne del 1837, repressa spietatamente dalle truppe borboniche comandate dal tristemente famoso colonnello Gennaro Tanfano. Tutto iniziò la notte dell'8 settembre, con l'uccisione dello stesso Tanfano (che come ricompensa era stato promosso comandante della piazza più importante dell'Aquila) e del suo attendente Antonio Scannella, accoltellati mentre uscivano di casa disarmati per recarsi al forte spagnolo. Questo fatto di sangue doveva dare il segnale all'insurrezione, approfittando del fatto che i reparti del presidio dell'Aquila erano stati inviati a Napoli per partecipare alla rituale parata militare per la festa di Piedigrotta. Sfruttando il momento propizio, si ritenne possibile liberare la città e provocare di conseguenza un generale sommovimento del regno contro la tirannide borbonica. In effetti i patrioti aquilani in armi conquistarono porta Rivera, da dove sarebbero dovute entrare in città alcune centinaia di rivoltosi provenienti dai centri vicini. Per tutta la notte fra l'8 e il 9 settembre pattuglie di insorti e di gendarmi si affrontarono al buio per le vie principali della città in una serie di convulsi scontri a fuoco con morti e feriti da entrambe le parti. La spuntarono i più preparati militi borboni. La repressione fu dura, portò all'incriminazione di 192 persone, in prevalenza artigiani, e del ristretto vertice ideologico e organizzativo della sommossa, costituito invece da una sparuta pattuglia di notabili colti».
Quali le cause? Quale il contesto nazionale e «meridionale» della rivolta? Che cosa era L'Aquila nel 1841, capoluogo di una provincia del Regno delle due Sicilie?
«I moti aquilani si inquadrano nelle situazione generale di un regno borbonico che era da tempo in subbuglio, come dimostrano le ribellioni di Palermo, di Catania, di Penne e della stessa Napoli. Una parte della borghesia tramava per affermare idee di tipo liberale o democratico, mentre i ceti popolari urbani speravano che con la caduta dei Borboni sarebbe stato alleggerito il peso fiscale e diminuito il prezzo di alcuni generi essenziali, come il sale. Per rilevanza amministrativa, per popolazione e per posizione strategica, L'Aquila era annoverata all'epoca tra le principali città del regno. Capoluogo di provincia, sede della Gran Corte Civile d'Appello e del Real Liceo degli Abruzzi, essa vantava un passato secolare caratterizzato da un fortissimo spirito di libertà e d'indipendenza, tale da vederla protagonista anche nella travagliata storia del nostro Risorgimento».
La rivolta fu uno dei primi moti repubblicani di matrice mazziniana? Chi furono gli ispiratori?
«La rivolta aveva una ispirazione mazziniana, ma fu condotta senza una guida esperta, con obiettivi limitati e metodi settari tardo-carbonari, incapaci di garantire un adeguato livello di organizzazione territoriale e un efficace coordinamento delle forze. Tra i massimi ispiratori della sommossa incriminati dalla procura della Gran Corte Criminale spiccano i mazziniani Pietro Marrelli e Angelo Pellegrini, ma anche lo stesso sindaco della città, il barone Vittorio Ciampella, il patrizio Luigi Falconi, il marchese Luigi Dragonetti e il barone Giuseppe Cappa».
La sommossa ebbe respiro corto, durò due giorni, come e perché finì?
«L’azione di contrasto della gendarmeria, cui dette man forte una guardia civica costituitasi per l’occasione, fu particolarmente tempestiva il che consentì alle truppe assentatesi di rientrare agevolmente in città. La conseguente azione repressiva, insieme all’arrivo di rinforzi borbonici provenienti da Sulmona e alla mancata sollevazione di altre province del regno, portò al rapido esaurimento del moto e alla dispersione dei rivoltosi nelle vicine campagne, nella vana attesa di supporti esterni. Il processo contro gli insorti, svoltosi nella fortezza spagnola, si concluse con otto condanne a morte (tre delle quali eseguite sugli spalti del forte e le restanti commutate in ergastolo) e una novantina di pene detentive varianti tra i 30 e i 25 anni di bagno penale. Di contro, i gentiluomini borghesi (professionisti, commercianti, burocrati) che avevano collaborato attivamente alla repressione del moto furono ricevuti in udienza dal re e da lui insigniti di medaglie e decorazioni. Forse anche per questo la città dell’Aquila non fu punita dai Borboni, potendo mantenere il suo ruolo di capoluogo e tutti i suoi uffici. Ciò non di meno, quando due anni dopo Ferdinando II venne in visita all’Aquila fu accolto da pochissimi devoti e rimase molto impressionato dalle vie completamente deserte».
Dopo quell’autunno del ’41 all’Aquila non c’è stata la «primavera dei popoli» del ’48 né gli altri bagliori rivoluzionari che hanno caratterizzato il Risorgimento, perché?
«Per la verità, quando nel maggio 1848 il re borbonico scioglierà il Parlamento e istituirà un ministero reazionario, il nuovo intendente liberale dell’Aquila, il siciliano Mariano d’Ayala, tenterà di difendere la Costituzione. Ma non poté contare su alcun appoggio cittadino contro l’esercito accorso in forza da Napoli, probabilmente perché il ceto popolare aquilano subiva ancora le cocenti delusioni della precoce rivolta del ’41, mentre il notabilato borghese persisteva in quella linea gattopardesca che gli permetterà, all’indomani del 1860, una transizione agevole e senza traumi dai Borboni ai Savoia. Insomma all’Aquila come altrove il progetto mazziniano trovava ostacoli nell’ignoranza, nell’analfabetismo, nella paura della reazione, nell’attaccamento alla tradizione, nei conflitti sociali. In una parola, era mancata la partecipazione popolare, l’apporto di quel “popolo” in cui Mazzini tanto confidava».

E' il professor Walter Cavalieri, docente di storia e scienze umane al liceo scientifico dell'Aquila, a rinfrescarci la memoria su un episodio mai entrato nei libri di scuola.
I fatti dell'Aquila del 1841, l'insurrezione contro Ferdinando II di Borbone, qual è la storia di questo episodio poco conosciuto, professore?
«L'insurrezione dell'Aquila segue di pochi anni la rivolta della città di Penne del 1837, repressa spietatamente dalle truppe borboniche comandate dal tristemente famoso colonnello Gennaro Tanfano. Tutto iniziò la notte dell'8 settembre, con l'uccisione dello stesso Tanfano (che come ricompensa era stato promosso comandante della piazza più importante dell'Aquila) e del suo attendente Antonio Scannella, accoltellati mentre uscivano di casa disarmati per recarsi al forte spagnolo. Questo fatto di sangue doveva dare il segnale all'insurrezione, approfittando del fatto che i reparti del presidio dell'Aquila erano stati inviati a Napoli per partecipare alla rituale parata militare per la festa di Piedigrotta. Sfruttando il momento propizio, si ritenne possibile liberare la città e provocare di conseguenza un generale sommovimento del regno contro la tirannide borbonica. In effetti i patrioti aquilani in armi conquistarono porta Rivera, da dove sarebbero dovute entrare in città alcune centinaia di rivoltosi provenienti dai centri vicini. Per tutta la notte fra l'8 e il 9 settembre pattuglie di insorti e di gendarmi si affrontarono al buio per le vie principali della città in una serie di convulsi scontri a fuoco con morti e feriti da entrambe le parti. La spuntarono i più preparati militi borboni. La repressione fu dura, portò all'incriminazione di 192 persone, in prevalenza artigiani, e del ristretto vertice ideologico e organizzativo della sommossa, costituito invece da una sparuta pattuglia di notabili colti».
Quali le cause? Quale il contesto nazionale e «meridionale» della rivolta? Che cosa era L'Aquila nel 1841, capoluogo di una provincia del Regno delle due Sicilie?
«I moti aquilani si inquadrano nelle situazione generale di un regno borbonico che era da tempo in subbuglio, come dimostrano le ribellioni di Palermo, di Catania, di Penne e della stessa Napoli. Una parte della borghesia tramava per affermare idee di tipo liberale o democratico, mentre i ceti popolari urbani speravano che con la caduta dei Borboni sarebbe stato alleggerito il peso fiscale e diminuito il prezzo di alcuni generi essenziali, come il sale. Per rilevanza amministrativa, per popolazione e per posizione strategica, L'Aquila era annoverata all'epoca tra le principali città del regno. Capoluogo di provincia, sede della Gran Corte Civile d'Appello e del Real Liceo degli Abruzzi, essa vantava un passato secolare caratterizzato da un fortissimo spirito di libertà e d'indipendenza, tale da vederla protagonista anche nella travagliata storia del nostro Risorgimento».
La rivolta fu uno dei primi moti repubblicani di matrice mazziniana? Chi furono gli ispiratori?
«La rivolta aveva una ispirazione mazziniana, ma fu condotta senza una guida esperta, con obiettivi limitati e metodi settari tardo-carbonari, incapaci di garantire un adeguato livello di organizzazione territoriale e un efficace coordinamento delle forze. Tra i massimi ispiratori della sommossa incriminati dalla procura della Gran Corte Criminale spiccano i mazziniani Pietro Marrelli e Angelo Pellegrini, ma anche lo stesso sindaco della città, il barone Vittorio Ciampella, il patrizio Luigi Falconi, il marchese Luigi Dragonetti e il barone Giuseppe Cappa».
La sommossa ebbe respiro corto, durò due giorni, come e perché finì?
«L’azione di contrasto della gendarmeria, cui dette man forte una guardia civica costituitasi per l’occasione, fu particolarmente tempestiva il che consentì alle truppe assentatesi di rientrare agevolmente in città. La conseguente azione repressiva, insieme all’arrivo di rinforzi borbonici provenienti da Sulmona e alla mancata sollevazione di altre province del regno, portò al rapido esaurimento del moto e alla dispersione dei rivoltosi nelle vicine campagne, nella vana attesa di supporti esterni. Il processo contro gli insorti, svoltosi nella fortezza spagnola, si concluse con otto condanne a morte (tre delle quali eseguite sugli spalti del forte e le restanti commutate in ergastolo) e una novantina di pene detentive varianti tra i 30 e i 25 anni di bagno penale. Di contro, i gentiluomini borghesi (professionisti, commercianti, burocrati) che avevano collaborato attivamente alla repressione del moto furono ricevuti in udienza dal re e da lui insigniti di medaglie e decorazioni. Forse anche per questo la città dell’Aquila non fu punita dai Borboni, potendo mantenere il suo ruolo di capoluogo e tutti i suoi uffici. Ciò non di meno, quando due anni dopo Ferdinando II venne in visita all’Aquila fu accolto da pochissimi devoti e rimase molto impressionato dalle vie completamente deserte».
Dopo quell’autunno del ’41 all’Aquila non c’è stata la «primavera dei popoli» del ’48 né gli altri bagliori rivoluzionari che hanno caratterizzato il Risorgimento, perché?
«Per la verità, quando nel maggio 1848 il re borbonico scioglierà il Parlamento e istituirà un ministero reazionario, il nuovo intendente liberale dell’Aquila, il siciliano Mariano d’Ayala, tenterà di difendere la Costituzione. Ma non poté contare su alcun appoggio cittadino contro l’esercito accorso in forza da Napoli, probabilmente perché il ceto popolare aquilano subiva ancora le cocenti delusioni della precoce rivolta del ’41, mentre il notabilato borghese persisteva in quella linea gattopardesca che gli permetterà, all’indomani del 1860, una transizione agevole e senza traumi dai Borboni ai Savoia. Insomma all’Aquila come altrove il progetto mazziniano trovava ostacoli nell’ignoranza, nell’analfabetismo, nella paura della reazione, nell’attaccamento alla tradizione, nei conflitti sociali. In una parola, era mancata la partecipazione popolare, l’apporto di quel “popolo” in cui Mazzini tanto confidava».
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