Rifiutopoli d'Abruzzo, tutti assolti dopo otto anni

L’ex assessore Lanfranco Venturoni era stato arrestato con l'imprenditore Rodolfo Di Zio: «Oggi finisce un incubo». Crolla l’accusa anche per il deputato Di Stefano

L’AQUILA. Otto anni fa lo choc dell’arresto. Ieri mattina la sentenza che li riabilita totalmente con formula piena e per la seconda volta perché il fatto non sussiste. La Rifiutopoli d’Abruzzo non era uno scandalo ma un castello di carte crollato in primo grado a Pescara e ricrollato anche in Corte d’Appello all’Aquila davanti al collegio presieduto dal giudice Aldo Manfredi. Per Lanfranco Venturoni, ex assessore alla Sanità del Pdl, è la fine di un incubo. Lo è anche per Rodolfo Di Zio, imprenditore dell’industria dei rifiuti, entrambi segnati da quella durissima esperienza.
Ma con loro sono stati assolti altri personaggi tirati in ballo dalla procura di Pescara per l’appalto del bioessiccatore alle porte di Teramo. Per l’accusa, gli imputati non avrebbero impedito che l’appalto venisse dato alla Deco dei Di Zio senza una gara. Venturoni, presidente della Team (Teramo Ambiente) aveva, secondo la procura, favorito Di Zio. E tutto sarebbe avvenuto attraverso la società controllata Team Tec che curava l’operazione bioessiccatore. Così erano finiti sul banco degli imputati, tra gli altri, anche Giovanni Faggiano, all’epoca di presidente della Team Technology, e l’ex collegio sindacale, in un processo che si svolse a Teramo, mentre Venturoni, Di Zio, l’ex ad di Team Vittorio Cardarella, il presidente della Deco Ferdinando Di Zio e il deputato Fabrizio Di Stefano, quest’ultimo prima imputato di millantato credito e poi di traffico di influenze, erano rimasti nel filone principale finito davanti in tribunale a Pescara.
Ma già nel 2015, il giudice Angelo Zaccagnini assolve gli imputati pescaresi. Mentre a Teramo finisce con condanne seppure lievi. Alle assoluzioni, i pm Mantini e Varone, rispondono con un ricorso per saltum, cioè direttamente in Cassazione che però respinge e rimanda il fascicolo in Corte d’Appello. Che ieri, in appena mezz’ora di udienza, non solo conferma le assoluzioni di primo grado ma riforma anche la sentenza di condanna teramana diventata assolutoria dopo che è crollata un’ipotesi d’accusa principale, quella che la Team, società a prevalente capitale pubblico, stesse svolgendo un’attività funzionale di tipo pubblicistico, mentre l’appalto del bioessiccatore non lo era. Quindi sono caduti tutti i reati riferiti ai pubblici amministratori come l’abuso oppure i più gravi di corruzione, peculato turbativa d’asta, contestati a vario titolo.
«Oggi è finito un incubo», dice Venturoni che, nel 2010, fu costretto a venti giorni di arresti domiciliari. La stessa prova durissima affrontata dall’imprenditore Di Zio che oggi per la prima volta si lascia andare ad uno sfogo liberatorio: «Un doveroso ringraziamento alla magistratura, perché la verità e l’onestà portano sempre i loro frutti», dice Di Zio. «Finora non ho mai voluto rilasciare dichiarazioni su una vicenda che ha segnato la vita non solo mia ma anche dei miei familiari e di tutti i nostri collaboratori e dipendenti. Ma ero certo che solo i fatti avrebbero potuto dimostrare l’assoluta innocenza mia e della mia azienda. E così è stato. La crescita dell’intero gruppo in Italia e all’estero che, inevitabilmente ha portato a un aumento delle assunzioni, i numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, e il costante impegno per il sociale sicuramente valgono a testimoniare la mia non arrendevolezza».
«Non escludo che presto mi aprirò alla gente, per raccontare di quei segni e di quegli errori che una giustizia in mani sbagliate può lasciare. Per ora», conclude, «ringrazio familiari, collaboratori, amici, dipendenti e tutti coloro che, incontrati anche in una passeggiata per strada, mi hanno espresso sempre vicinanza e solidarietà».
Infine c’è il commento, che in alcuni passaggi si fa critico, del deputato uscente Di Stefano: «La sentenza, preceduta dalla richiesta di assoluzione fatta dal Procuratore Generale della Corte d’Appello d’Abruzzo, Pietro Mennini, mi fa in parte riconciliare con il sistema giudiziario italiano: ci sono ancora persone per bene e magistrati intellettualmente onesti che sanno riconoscere quando altri colleghi hanno sbagliato. Benché per me la vicenda fosse già chiusa, perché andata in prescrizione», conclude Di Stefano, «avere il riconoscimento formale del Pg, poi accordato dalla Corte, non può che essere una gioia immensa. Ma mi domando: come mi verranno ricompensati gli otto anni di tribolazioni?».