Un sovrano poco regale

18 Febbraio 2011

Vittorio Emanuele II, re d'Italia forgiato da Cavour

Con il re Vittorio Emanuele II concludiamo la serie di interviste a Francesco Sanvitale sui quattro protagonisti del Risorgimento. Prima del sovrano Sanvitale, che ha in uscita per la casa editrice Edt di Torino il volume «L’altra faccia del mito. Il Risorgimento, Garibaldi e la musica», ha parlato di Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini.

Con Vittorio Emanuele II si chiude il ciclo di interviste sui protagonisti del Risorgimento italiano. Dopo aver parlato, nelle scorse settimane, di Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Mazzini. Al di là della retorica che avvolse l’esistenza del primo capo dello Stato unitario, chi fu veramente il re galantuomo e che ruolo effettivo ebbe per il raggiungimento dell’Unità?
«Ecco, io comincerei dall’appellativo di galantuomo. Gli derivò dal fatto che appena Carlo Alberto, dopo la sconfitta di Custoza, abdicò in suo favore, gli storici piemontesi cominciarono a costruire il personaggio con la leggenda di una sua forte resistenza a Radestzky che gli imponeva di sospendere lo statuto Albertino. Fu vero il contrario, come hanno dimostrato storici del valore di Denis Mack Smith: il maresciallo austriaco cercò lui di mitigare i termini della resa per non umiliare troppo il Piemonte lasciando eccessivi malumori. Vittorio Emanuele, per contro, desiderava abolire lo statuto rimproverando l’eccessiva acquiescenza del padre ai democratici, dichiarandosi amico dell’Austria e in sintonia con la politica assolutista di quell’Impero. Ciò è ormai inconfutabile per la scoperta di documenti diplomatici in cui Radesky relaziona con dovizia di particolari i termini dei colloqui tenutisi a Vignale dove fu firmato l’armistizio. Altro che re galantuomo. Saprofiticamente seppe cogliere con furbizia più contadina che regale, le occasioni offertegli da Cavour o da Garibaldi appropiandosene e piegandole agli interessi dinastici. Peraltro i nostri regnanti Savoia con gli appellativi non furono, diciamo così, fortunati. Umberto I fu definito il re buono per qualche sua azione ben pubblicizzata, per esempio quando portò soccorso alle vittime del colera di Napoli nel 1884, ma resta sulla sua coscienza e nella storia d’Italia l’aver premiato con l’ordine militare di Savoia il generale Bava Beccaris che nel 1898 represse nel sangue una manifestazione popolare a Milano: pagò con la vendetta di Gaetano Bresci che l’uccise a Monza nel 1901. Vittorio Emanuele III fu il re soldato per la sua viva partecipazione alle operazioni di guerra del primo conflitto mondiale, poco per un sovrano che avrebbe favorito l’ascesa e la dittatura del fascismo fregiandosi dei titoli di re d’Albania e imperatore d’Etiopia, frutto di due crudeli guerre d’aggressione. L’ultimo re d’Italia, Umberto II, fu il re di maggio, appellativo neutro legato alla durata del suo regno: dagli inizi di maggio al 2 giugno 1946».

I Savoia non le sono simpatici. Ma pure un qualche ruolo lo giocò Vittorio Emanuele II nello sviluppo del percorso unitario?
«Non è questione di simpatia o antipatia. Le confesserò, anzi, che da adolescente subii il fascino della monarchia, poi ho preso a leggere molto. Il fatto è che parliamo di una dinastia assolutamente inadeguata al ruolo che gli errori della storia gli affidarono, a partire dal primo re d’Italia. Un uomo rozzo, inelegante, tanto differente dalla conformazione fisica del padre (alto oltre 2 metri) e degli altri Savoia (gli Aosta, per esempio) da alimentare la leggenda di essere figlio di un macellaio di Firenze divenuto principe ereditario perché il figlio di Carlo Alberto era morto nel rogo della sua stanza da letto insieme alla governante. Certo che la governante sia arsa viva e il neonato si sia salvato è cosa sorprendente, ma i problemi caratteriali e di atteggiamento di Vittorio Emanuele esulano, a mio avviso, dal dna. Il principe (Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando Tommaso di Savoia) fu, ad esempio, refrattario a ogni tipo di studio: i suoi precettori impazzirono ma non riuscirono a fargli leggere una pagina, preferendo il futuro re la sciabola, la caccia, le corse a cavallo. Il suo era un carattere chiuso al nuovo e sostanzialmente antidemocratico. Ricordiamo il proclama di Moncalieri che invitava i sudditi a non votare per i democratici per le elezioni indette dopo che, essendo uscito dalle urne il 15 luglio 1849 un Parlamento in maggioranza composto da democratici, lo aveva prontamente sciolto. Né possiamo dimenticare il sacco di Genova dove una rivolta scoppiata tra il popolo che non accettava l’armistizio di Vignale fu repressa dai bersaglieri del generale La Marmora (Alfonso) con oltre 500 morti civili. Il re galantuomo scrisse, ovviamente in francese, un encomio al generale definendo gli insorti “vile e infetta razza di canaglie”: non c’è male per un padre della Patria».

Decisamente, ma poi con Cavour le cose cambiarono.
«Sì e il Piemonte iniziò una politica estera di grande livello, accreditandosi poi in Italia come l’unico tra i sette Stati che potesse realizzare l’Unità. Con Cavour non fu un rapporto idilliaco innanzitutto per la profonda differenza di intelligenza e di cultura tra i due, ma soprattutto per la visione politica che da parte di Cavour era alta e lungimirante a da quella del re restava quella di un sovrano di un piccolo regno con la sola ambizione di ampliarne i territori. Per il resto Vittorio Emanuele, con furbizia più che scaltrezza politica, giocò un suo percorso personale, spesso non facendosi problemi di tenere nell’ambiguità i rapporti con Cavour o con Garibaldi e in generale anche con gli altri politici, con i famigliari e con lo stesso suo popolo. Ma quest’ultimo aveva bisogno di un eroe che lo governasse e fu facile preda dei tessitori di miti. Peraltro, se la parte più culturalmente preparata e avvertita non nascondeva le simpatie repubblicane, la massa, la società contadina, vedevano pur nel mutare del sovrano in un’Italia unita una sorta di continuazione della tradizione».

Che ruolo giocò il re?
«Vittorio Emanuele II, come un consumato attore, recitò la parte che gli scriveva Cavour, mettendoci anche del suo recitando a soggetto. Fu alla fine il più fortunato dei quattro (con Cavour, Garibaldi e Mazzini) raggiungendo il massimo risultato con il minore impegno. Forse fu proprio aiutato dalla sua idiosincrasia per lo studio e il sapere, per i giochi diplomatici delle cancellerie europee, per la politica raffinata. L’Italia aveva bisogno di un mito cui legare i suoi sforzi, i sacrifici, il sangue dei patrioti, lo trovò in lui che appariva un uomo semplice di cui fidarsi. Egli, a sua volta, imparò a ricoprire questo ruolo di re combattente e poi di padre della Patria sacrificando pur radicati aspetti della sua vera indole come l’antidemocrazia e un certo bigottismo, ereditato dal padre, non preoccupandosi poi più di tanto per la scomunica piovutagli da Pio IX ma brigando, e ottenendo, che alla fine della sua vita gli venisse revocata».

Com’era Vittorio Emanuele nella vita privata, visto che di ciascuno dei nostri personaggi abbiamo indagato anche questo aspetto?
«Direi che in parte l’abbiamo già un po’ delineata. Il re non amava la vita di corte e di questo si potrebbe non fargli torto visto che per rigore di etichetta casa Savoia era tra le più oppressive d’Europa. Rifuggiva i salotti mondani preferendo giocare al bigliardo. Non amava il teatro né tantomeno la musica, come tutti i Savoia. La sua grande passione era però la caccia. Passava intere giornate nelle campagne piemontesi non disdegnando l’ospitalità dei contadini e la disponibilità delle belle ragazze campagnole. Sposò il 12 aprile 1842 a Stupinigi (Torino) la cugina Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena che gli diede ben otto figli lasciandolo vedovo dopo 13 anni di matrimonio nel 1855. Furono vari i tentativi di farlo riammogliare, anche per interessi dinastici e di Stato, ma fu inutile. Un approccio con la casa reale inglese naufragò perché la regina Vittoria, che pure aveva molte figlie e nipoti da maritare, rimase sconvolta dai modi sbrigativi se non ineducati del nostro re. A parte l’innumerevole serie delle sue amanti, preferite alle nobildonne le contadine anche per evitare rapporti impegnativi. Ebbe numerosi figli illegittimi tanto che qualche malevolo affermò che gli stava proprio a pennello l’appellativo di padre della Patria. Ma forse un amore vero lo ripose nella bella Rosina, la popolana Rosa Vercellana, tarchiotta come lui, ma che gli fu amante fedele e poi sposa morganatica (senza diritti al trono per sé e i propri figli) divenendo contessa di Mirafiori. Per lei fece costruire una bellissima residenza nota come appartamenti reali di Borgo Castello. Lei, oltre al suo amore sincero, gli dette due figli: Vittoria ed Emanuele di Mirafiori. Si narra che Cavour per sollevarlo dall’imbarazzante relazione gli offrisse un assegno con una cifra astronomica. Vittorio Emanuele rifiutò di lasciare la sua Rosina meritando in questo caso il titolo di re galantuomo, ma trattenne l’assegno giocando un doppio tiro al suo primo ministro».

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