Albanese leader spirituale del popolo delle piazze, ma ha perso il controllo del ruolo

10 Ottobre 2025

La difficoltà della relatrice speciale dell’Onu si palesa nel fatto che ormai passi congrua parte del suo tempo sui media e in eventi dal vivo

ROMA. Il popolo delle piazze per Gaza non appartiene a partiti o organizzazioni, quelle manifestazioni hanno espresso un’indignazione diffusa spontanea. Questo nascente movimento di partecipazione civile non ha un capo, ma ha una leader spirituale: Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i territori occupati.

Albanese in questi mesi ha dato un grande contributo a dare chiavi interpretative della tragedia in corso e al argomentare responsabilità e intenti di Israele. Eppure, proprio ora che la sua missione sembra avere successo, Francesca Albanese ha perso il controllo del suo ruolo e del suo messaggio. O meglio, adesso che il suo messaggio viene davvero ascoltato, analizzato, discusso, emergono problemi. In questa nuova fase, la Albanese fatica a gestire le responsabilità che le derivano dal fatto che così tanta gente finalmente l’ascolti e prenda sul serio ciò che dice. Parlare da attivista, da militante, ma non ha ancora accettato gli oneri che derivano dall’essere leader di fatto di un movimento grande, composito, mosso da compassione e indignazione, ma nel quale non tutti hanno necessariamente le sue stesse idee. La difficoltà di Albanese si palesa nel fatto che ormai passi congrua parte del suo tempo sui media e in eventi dal vivo a chiarire quello che ha detto nelle comparsate precedenti, a spiegarsi, a giustificarsi. Insomma, proprio dopo aver ottenuto che tutti si interessino a Gaza e al genocidio in corso, noi ci ritroviamo a passare il tempo a parlare delle polemiche che genera.

Il caso Segre. Prendiamo il caso più recente: la polemica su Liliana Segre. Durante la trasmissione In Onda, su La7, che spesso la ospita, Albanese si alza e se ne va mentre il commentatore di destra Francesco Giubilei spiega di essere in sintonia con la Segre, contraria all’uso della parola genocidio per Gaza.

Sembrava solo una sfortunata coincidenza di tempi, Francesca Albanese doveva andare via, e le telecamere la riprendono mentre scatta al riferimento a Segre. Però Francesca Albanese è tornata sull’episodio e ha decisamente complicato la sua posizione.

In un’intervista a Fanpage, dice che conosce «tantissimi esperti di storia, anche sopravvissuti all’Olocausto che dicono che a Gaza c’è genocidio, ma siccome la posizione della senatrice Segre torna utile, si utilizza quella».

Poi il commento più problematico: «La pietra di inciampo della logica è che se una persona ha una malattia, non va a farsi fare la diagnosi da un sopravvissuto a quella malattia, ma da un oncologo». Aggiunge: «Ho grandissimo rispetto per la senatrice Segre, una persona che ha vissuto traumi indicibili e che è profondamente legata a Israele, per questo sostengo che ci sono gli esperti e che non è la sua opinione, o la sua esperienza personale, a stabilire la verità su quanto sta accadendo c’è chiaramente un condizionamento emotivo che non la rende imparziale e lucida davanti a questa cosa».

La relatrice rivendica spesso di avere un’opinione più autorevole di quella di tanti altri suoi interlocutori sul genocidio, perché lei è una giurista. Anche se - per essere precisi - il grosso della sua carriera è nelle organizzazioni internazionali e non è un’accademica di ruolo non ha pubblicazioni sul tema.

Comunque, su Segre e Shoah ha espresso un’opinione assai poco tecnica, molto valoriale e dunque per definizione opinabile: già è discutibile paragonare la Shoah a una malattia, a un fenomeno naturale, senza responsabili o intenzionalità. È un modo per sminuire la sua gravità. E questo nulla c’entra con Gaza.

Parlare poi di “pietra di inciampo logica” a proposito del ragionamento di Segre è un’irrisione di uno dei progetti di memoria più noti, i sampietrini che calpestiamo nelle nostre città, e che sono lì a ricordare gli italiani classificati come ebrei e deportati nei campi di sterminio.

Parlare di “pietra di inciampo logica” significa dire che la Shoah impedisce a Liliana Segre di ragionare. La senatrice a vita sopravvissuta ad Auschwitz, secondo Albanese, «non è imparziale e lucida su questo argomento». Dunque deve star zitta. O essere ignorata.

Qui Francesca Albanese fa due cose controproducenti per la causa che difende. Primo: perché sminuire, perfino irridere la Shoah, dovrebbe aiutare a fermare il genocidio in corso? Al massimo aumenta le frizioni con chi ancora non è convinto della strage compiuta da Israele.

Poi è un bizzarro modo di ragionare sostenere che Segre non può parlare di Israele perché troppo coinvolta, in quanto ebrea, ma Albanese può dare un giudizio imparziale ed equilibrato sulla vicenda in quanto incaricata dall’Onu specificamente di difendere i diritti palestinesi, non di essere un osservatore super partes.

Se Israele è l’imputato, Albanese fa di mestiere il pubblico ministero, non il giudice.

Secondo elemento critico: se a Liliana Segre non spetta il compito giuridico di definire i crimini di Gaza, non spetta a lei il compito di riscrivere il rapporto dell’Italia con la Shoah.

Se le piazze sono piene di milioni di persone indignate è anche perché ci sono generazioni di studenti che nelle scuole sono cresciute con la consapevolezza delle responsabilità dell’Italia nell’Olocausto, una consapevolezza sviluppata proprio grazie alle testimonianze sofferte dei sopravvissuti: come Liliana Segre e, a suo tempo, Primo Levi.

Per questo, nel 2018, il presidente della Repubblica ha voluto nominare senatrice a vita Liliana Segre, nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali: per sancire che la coscienza collettiva dell’Italia ormai aborriva e condannava quella discriminazione. Chiunque sia a praticarla.

Negare il diritto di esprimersi a Liliana Segre e irridere quello che rappresenta significa non capire la radice profonda dell’indignazione degli italiani e la ragione stessa per cui l’etichetta di genocidio è così politicamente rilevante.

Sempre a In Onda su La7, Francesca Albanese ha poi sostenuto che le tv italiane non mostrano le immagini peggiori delle stragi di Gaza non per un obbligo alla continenza giornalistica che rimane anche di fronte all’orrore, ma per qualche ordine o indicazione superiore.

L’idea dei grandi manovratori, dei burattinai che danno ordini ai media, è propria di tutte le propagande antisemite sui complotti giudo-pluto-massonici. Non c’è ragione per pensare che Francesca Albanese condivida quei deliri, ma a maggior ragione è inutile evocarli.

“Chieda scusa!”. Poi c’è la faccenda di Reggio Emilia, che riguarda più nello specifico le posizioni di Albanese su Gaza. Al sindaco Marco Massari che le assegnava l’alta onorificenza del Primo Tricolore, la Albanese ha rimproverato di aver citato la liberazione degli ostaggi israeliani di Hamas come premessa della pace.

Sono arrivati i fischi dalla platea. La Albanese ha detto: la Palestina ha diritto all’autodeterminazione a prescindere dal comportamento di Hamas, perché le prerogative dei palestinesi e i loro diritti sono violati in modo sistematico da ben prima del 7 ottobre e non possono essere una contropartita.

Vero. Ma questa consapevolezza non invalida il ragionamento del sindaco: è un fatto che Israele oggi usi l’argomento degli ostaggi per bombardare Gaza, e che siano gli ostaggi a garantire al governo Netanyahu il sostegno anche di chi non ne condivide le pratiche e le idee, così come è un fatto che il loro mancato rilascio farebbe saltare il piano di pace Trump.

Dunque, sul piano del diritto e della storia avrà pure ragione Albanese, ma su quello politico ha ragione il sindaco.

Il problema è che Francesca Albanese sostiene una tesi che non tutti nelle piazze per Gaza sposerebbero: cioè che il terrorismo di Hamas, per quanto esecrabile, sia legittimo e più efficace di forme meno violente di difesa della causa palestinese: «Nessuno giustifica i massacri del 7 ottobre, o la violenza nei confronti dei civili coloni francesi mentre l’Algeria tentava da sola con l’unico strumento che le era rimasto di liberarsi. La violenza non è mai giustificata. Però» aggiunge «non possiamo lasciare i palestinesi abbandonati a quella mostruosità e poi condannarli pure e giudicarli. Allora dico sì, sì, sono stati crimini, efferati, massacri, chiamateli come volete, terroristi? Terroristi. Ma Tiziano Terzani ci diceva: non bisogna giustificarli terroristi, però capirli, chiedersi che cosa chiedono, che cosa vogliono. E alla fine la storia si ricorderà che sono riusciti a portare la Palestina di nuovo al centro della discussione. Stanno animando una rivoluzione globale che ci sta facendo pensare non solo a chi sono loro – conclude la Albanese – ma a chi siamo noi».

Le implicazioni di questa analisi sono chiare: le piazze per Gaza sono merito di Hamas, che è riuscita a imporre la tragedia dei palestinesi come priorità del mondo.

E come? Massacrando 1.200 israeliani il 7 ottobre 2023 con la consapevolezza, forse con l’auspicio, che poi Israele avrebbe reagito con lo sterminio sistematico della popolazione di Gaza, e quasi 70.000 morti palestinesi.

Non posso sapere cosa c’è nella testa di tutti i manifestanti di queste settimane, ma dubito che molti abbiano voglia di sentirsi parte della “rivoluzione globale” di Hamas.

Lo striscione. Alla manifestazione di Roma, il 4 ottobre, c’era uno striscione pro-Hamas che definiva il massacro del 7 ottobre 2003 “giornata della resistenza palestinese”. Su La Repubblica Maya Issa leader del Movimento degli studenti palestinesi, non ha condannato quello striscione, che nessuno ha sentito il bisogno di allontanare dal corteo: «Ognuno è libero di portare in piazza lo striscione che vuole. Noi non censuriamo a nessuno. Il 7 ottobre è che è stata una delle tantissime date della resistenza palestinese. Perché il popolo palestinese non resiste dal 7 ottobre, ma da quando è nato il regime di Israele, cioè dal 1948».

Queste posizioni ci sono sempre state nel dibattito intorno alla tragedia palestinese. Francesca Albanese ha sempre scritto nei suoi tanti libri che considera Israele una potenza coloniale e Hamas una forma di resistenza all’oppressore legittima.

Ma queste posizioni non hanno mai mobilitato le masse.

Le piazze di queste settimane esprimono il desiderio di far cessare la violenza, non quello di legittimare le ritorsioni terroristiche di Hamas o altre forme di violenza.

Francesca Albanese cita Tiziano Terzani per dire che i terroristi non bisogna giustificarli, ma almeno capirli.

Anche dopo averli capiti, però, il compito di chi osserva le cose a distanza e dice di volersi impegnare per la pace non è legittimare la violenza, ma creare le condizioni perché cessi.

Altrimenti diventa parte del problema, invece che della soluzione.

Francesca Albanese, come Maya Issa, è ormai leader di qualcosa. E come tale verrà giudicata non soltanto sui toni drammatici della sua testimonianza, ma sul contributo concreto che darà a spingere gli eventi nella direzione che dice di auspicare, cioè la fine del genocidio e la costruzione delle premesse della pace.

In un articolo del 2014, Francesca Albanese rimproverava la comunità internazionale perché si rifiutava di trattare direttamente con Hamas, classificato come gruppo terrorista. La pace si fa con i nemici, scriveva. Valeva allora per Hamas, vale oggi per Israele.

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