Alec Ross, ex consigliere di Obama: «Siamo nel mondo G-zero, sì alla mentalità cow-boy»

24 Settembre 2025

Il politologo a tutto campo su innovazione e geopolitica: «In Abruzzo vedo potenzialità, non solo legate a cultura e bellezza. Terra poco conosciuta, ma con grandi competenze in manifattura e ricerca» 

PESCARA. «Quello che consiglio all’Italia è la mentalità da cowboy». A dirlo è Alec Ross, professore, politologo ed ex consigliere per l’innovazione durante l’amministrazione Obama, che raggiungiamo al telefono alla vigilia della 5ª edizione dell’Abruzzo Economy Summit, in programma domani e venerdì a Pescara, all’Aurum. Al centro dei lavori ci saranno innovazione, geopolitica e futuro delle economie locali. Originario di Campo di Giove, vicino a Sulmona, da dove il bisnonno emigrò negli Stati Uniti all’inizio del ’900, Ross oggi è professore alla Bologna Business School ed è autore di libri tradotti in 24 lingue e diventati best seller in cinque continenti.

Anche imprenditore, siede nei consigli di amministrazione di aziende che spaziano dalla tecnologia alla manifattura, dai media alle telecomunicazioni, dall’istruzione al capitale umano, fino alla salute e alla sicurezza informatica. Durante la presidenza Obama ha ricoperto il ruolo di Senior Advisor for Innovation al Dipartimento di Stato, contribuendo a modernizzare la diplomazia americana. Già responsabile del comitato per la politica tecnologica e dei media nella campagna elettorale del 2008, ha fatto parte anche del team di transizione presidenziale Obama-Biden.

Professor Ross, lei ha parlato di un mondo in cui bisogna massimizzare opportunità e ridurre le minacce. Che cosa intende?

«Io vedo un futuro dove le opportunità superano tutte le minacce. Ho sangue italiano ma mi sento un cowboy americano: ottimista per natura. E solo gli ottimisti cambiano il mondo».

Quali sono i campi in cui si gioca la dicotomia minaccia/opportunità?

«Gli sviluppi tecnologici in primis, dall’intelligenza artificiale alla corsa allo spazio, fino alla genomica con i chip neurali e la medicina personalizzata contengono entrambe le cose. Tutto questo porta interrogativi etici, ma io tendo a evidenziarne i lati positivi e grandi margini di crescita. L’unica vera incognita che mi spaventa riguarda i cambiamenti geopolitici».

Perché?

«Perché siamo in una fase di enormi stravolgimenti, i più grandi dal 1989, dalla caduta del Muro. Fino a poco tempo fa c’era un’idea di equilibrio, oggi no. Non siamo più nel G7 o nel G20: io dico che siamo in un mondo “G-zero”. Le alleanze tradizionali stanno cambiando e non ci sono più due maglie tra cui scegliere, come accadeva ai tempi di Urss e Usa».

E in questo nuovo mondo quanto è probabile una guerra tra Stati Uniti e Cina?

«La ritengo improbabile. Non sarebbe auspicabile: un disastro mondiale per entrambi. Due nazioni con le armi atomiche significherebbe milioni di morti con conseguenze catastrofiche per l’umanità».

Nel mondo G-zero che descrive è proprio l’Occidente in difficoltà: sociale, economica, demografica..

«Vero. Prima di essere geopolitica, è una frattura culturale. Penso al ruolo dell’Europa e ricordo le parole di Garibaldi nel 1861: “O si fa l’Italia o si muore”. Oggi dico: o si fa l’Europa o si muore. Perché l’Europa è entrata in Serie B, da un punto di vista geopolitico ed economico.  Come un nobile club di calcio decaduto. Io amo l’Europa, passo molto tempo qui, ma non è più tra i grandi protagonisti. Nel frattempo emergono Arabia Saudita, India e molti altri. Questo mi dà fastidio».

Perché? Vede possibilità inespresse?

«Certo. In primis in Abruzzo. Vedo persone lasciate andare, talenti che altrove fanno la differenza. Nella Silicon Valley incontro italiani ovunque: il centro nevralgico della tecnologia mondiale non è abitato da americani, ma da europei. Bisogna valorizzarli qui».

E allora, se abbiamo tutto per elevarci, perché ci troviamo depressi?

«Bella domanda, e risponderò senza censura. Negli ultimi 25 anni sono scesi in campo cinesi e americani. Al posto di mettersi a giocare anche loro, gli europei hanno deciso di fare l’arbitro: mettendo regole, fischiando falli e cartellini gialli. Ma l’arbitro non vince mai. Io dico sempre: America innovates, China replicates, Europe regulates. È ora che l’Europa smetta di fare l’arbitro ed entri in scena».

E l’Italia in particolare?

«Viene da trent’anni di stagnazione. I salari, ad esempio, sono imbarazzanti. Serve coraggio e audacia. Quando qualcosa non va, si parla solo di scandalo, e la gente scappa. La parola più abusata è “crisi”, la frase più abusata “dobbiamo stare attenti”. Io penso l’opposto: bisogna imparare a cavalcare le ondate di volatilità. Gli americani ridono davanti alla volatilità e la cavalcano. Gli europei restano sulla spiaggia impauriti. Io sono un po’ cowboy, e i cowboy oggi vincono».

Tutto vero, ma il vecchio continente è in guerra da tre anni e la pace non arriva. Come si fa a restare ottimisti?

«Capisco le preoccupazioni, ma non possiamo limitarci a una posizione di difesa. Qualche ora fa ero a Stoccolma, con droni sugli aeroporti. Ma non possiamo farci paralizzare. Anche qui serve coraggio, mentalità cowboy».

Qualcuno dice che L’Abruzzo è il Wyoming italiano: ci sono possibilità per i cowboy qui?

«Vedo potenzialità enormi, non solo legate alla cultura e alla bellezza e la storia. È una terra poco conosciuta, ma con grandi competenze nella manifattura e nella ricerca. Io vedo opportunità, e vedo grinta. L’Abruzzo ha spalle forti e grinta da vendere».

Prima dell’economia però, ci vuole un grande ideale. Come ritrovarlo?

«Quando i miei bisnonni emigrarono 125 anni fa fu un atto di imprenditorialità individuale. Certo, c’era l’aspetto economico, ma prima veniva la libertà: autodeterminazione, capacità di guidare la propria vita, la propria famiglia, la propria comunità. Questa è la mentalità cowboy: non essere schiavi del sistema, ma liberi».

Liberi come?

«Le mie tre parole preferite: amore, famiglia, libertà. Per noi americani sono sullo stesso piano. Da qui si riparte».

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