Il ricercatore Pizzirani: «Vi svelo nuove verità sulla strage di Bologna»

Il teatino racconta l’attentato che nel 1980 scosse l’Italia: «Quel 2 agosto mio zio e mia cugina erano in stazione»
CHIETI. Un evento ancora impresso sul cuore e, soprattutto, sulla pelle di tanti che scosse il 2 agosto 1980 l’Italia intera: è l’attentato che il ricercatore teatino Simone Pizzirani racconta nel suo libro La strage di Bologna edito dalla Casa Editrice Carabba. Pizzirani è nato a Chieti ma è figlio dell’Emilia Romagna: il padre Stefano, infatti, lasciò Bologna da giovane per lasciare un ricordo indelebile tra i tanti tifosi del Chieti Basket negli anni Settanta. Talmente forte il calore della città abruzzese da decidere, una volta messi gli scarpini al chiodo, di mettere su famiglia proprio a Chieti.
Pizzirani, da dove nasce l’idea di questo libro?
«Tra i banchi universitari. Il libro è la versione ampliata della mia tesi di laurea magistrale in Ricerca sociale, politiche della sicurezza e criminalità conseguita alla d’Annunzio sotto la supervisione del mio relatore, il prof. Antonello Giansante Canzano, docente di Politiche internazionali e analisi dei fenomeni eversivi nonché curatore della prefazione di questo volume».
Quanto ha inciso la sua origine bolognese?
«Tanto, anzi le dico che questo è stato da sempre un impegno personale perché il giorno dell’attentato alla stazione di Bologna erano presenti anche mio zio Alberto e mia cugina Elisabetta. Erano lì per acquistare dei biglietti per il viaggio che avrebbero fatto il giorno dopo verso la Calabria. Al momento dell’esplosione mi hanno raccontato che Elisabetta, scossa e ferita, fu portata prontamente al Sant’Orsola. Mia zia Anna Pizzirani lavorava nelle Ferrovie dello Stato e, saputo dell’attentato, si precipitò immediatamente in stazione sapendo che i suoi familiari erano lì. Anna oggi è la vice presidente dell’associazione delle vittime delle famiglie della strage e mi ha trasmesso quest’impegno civico e morale nel continuare a cercare la verità su ciò che è accaduto. Io stesso ogni anno partecipo all’anniversario dell’evento».
Quanto ha segnato quell’incidente la sua famiglia?
«Molto direi. Mia cugina da sempre raggiante e socievole, dopo quel trauma non è stata più la stessa, diventando introversa e poco incline alla socializzazione. Aveva solo 13 anni, ma le è stato riconosciuto il 45% d’invalidità psicologica, mentre mio zio non ha mai voluto parlare più di quel giorno, evitando sempre di farsi trovare in città il 2 agosto durante i cortei».
Come detto, la gestazione di questa fatica parte in università: da dove è partito?
«Il lavoro è stato possibile grazie alla digitalizzazione dei fascicoli processuali, consultabili dal 2015. Questo mi ha permesso di ricostruire i tasselli di un puzzle che si è rivelato molto più ampio del previsto, purtroppo dal respiro internazionale».
Fino a che punto?
«I documenti dimostrano che la strage di Bologna è il punto di partenza per ricostruire altri fenomeni eversivi che hanno interessato il nostro Paese negli anni di piombo, durante la strategia del terrore. È come se fosse una rete che collega la mafia, le logge massoniche, i servizi di intelligence tanto italiani quanto statunitensi, andando da piazza Fontana all’omicidio di Piersanti Mattarella: gli esecutori di questa macabra sentenza del 6 gennaio 1980 furono Fieravanti e Cavallini, gli stessi che otto mesi dopo eseguirono l’attentato a Bologna. Insomma, c’è un unico filo rosso che parte dal 1969 e arriva al 1992 con gli omicidi politici di Falcone e Borsellino, che nell’opinione pubblica sono attribuibili solo alla mafia».
Ricostruzione ardita, ma interessante: ci può citare qualche documento in particolare?
«Abbiamo ritrovato alcuni fascicoli nascosti in quanto non ancora digitalizzati. Ad esempio le posso citare il Documento Artigli, consegnato nel 1980 al capo della Polizia Vincenzo Parisi in cui si dimostra che lo Stato italiano era coinvolto direttamente nell’attentato di Bologna e, più in generale, nella strategia del terrore. Le dico di più: questo è il periodo d’egemonia di Licio Gelli, venerando maestro della loggia massonica P2 e i fascicoli certificano che tra il 1965 e il 1982 Gelli tentò di condizionare i processi italiani tramite infiltrazione di uomini di fiducia nella magistratura, in Parlamento, nella stampa, al fine di creare un nuovo assetto istituzionale che distruggesse lo Stato italiano dall’interno per sostituirlo».
Quale legame avrebbe avuto Gelli con la strage?
«Nel marzo 1981 a Fiumicino venne fermata dalle forze dell’ordine la figlia di Gelli che tornava dagli Stati Uniti. Le fu sequestrato un plico in borsa contenente il documento Direttiva Westmoreland attraverso il quale i servizi segreti statunitensi legittimavano l’uso della forza e della violenza per bloccare lo sviluppo del comunismo tra i Paesi del Patto Atlantico».
La storia è tristemente conosciuta, eppure con il suo libro cerca di raccontarla soprattutto alle nuove generazioni. Mi pare di capire però dalle sue parole che la ricerca è soltanto all’inizio.
«Appena ho finito di scriverlo, ho sentito l’urgenza di proseguire la mia ricerca. Vorrei entrare in un dottorato accademico in Scienze politiche per fare ulteriore verità sul terrorismo indiscriminato. Tutti i cittadini hanno il diritto di sapere ciò che è accaduto».
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