La riforma costituzionale sulla giustizia in Italia è una questione di potere

Dove fissare l’esatto punto di equilibrio tra la classe politica e la magistratura? Il governo ha fatto la sua mossa. Adesso tocca agli elettori con il referendum
ROMA. La riforma della giustizia è uno di quegli argomenti sui quali moltissimi sembrano avere opinioni molto nette che hanno poco a che fare con il merito. Dunque, l’idea che quasi certamente il suo destino sarà affidato a un referendum che condensa questioni complesse in un sì o un no può suscitare qualche legittima preoccupazione. Il Senato ha approvato con 112 voti in quarta lettura la riforma costituzionale voluta dal governo Meloni che introduce, tra l’altro, la separazione tra le carriere del pubblico ministero e del giudice. Scrive Giorgia Meloni che così si fa «un passo importante verso un sistema più efficiente, equilibrato e vicino ai cittadini».
In realtà, appunto, ci sarà un referendum: basta che lo chiedano un quinto dei Parlamentari, 500.000 cittadini o cinque consigli regionali. Ma perfino i parlamentari del centrodestra dicono di volere il voto popolare che sarà, lo ricordiamo, senza quorum, perché si tratta di un referendum confermativo e non abrogativo come quello, fallito proprio per la bassa affluenza, di giugno sul lavoro. La campagna referendaria è già in corso da mesi: i promotori sostengono che così, finalmente, i cittadini avranno una giustizia più equa, imparziale, rapida. I detrattori dicono che è la fine dell’indipendenza del potere giudiziario, che i pm diventeranno avvocati dell’accusa e della polizia, che sarà il governo a indicare i reati prioritari. In realtà, non è chiaro a cosa serva questa riforma, nel senso che non ci sono analisi dei dati alla base né obiettivi misurabili per verificare, a posteriori, il suo successo o il suo fallimento.
IL FALSO PROBLEMA – Certo, può suscitare qualche sospetto il fatto che il grande ispiratore della separazione delle carriere sia Silvio Berlusconi, che in carriera ha avuto problemi soprattutto con i pubblici ministeri, e che da condannato in via definitiva per frode fiscale ha lasciato questa riforma come eredità spirituale. Matteo Renzi, che come Berlusconi ha avuto una lunga serie di problemi giudiziari negli anni del governo e in quelli successivi, con una serie di inchieste su politici e familiari che in gran parte si sono poi sgonfiate, critica la riforma perché non ha fatto abbastanza: «Oggi» spiega «non si celebra la giornata della separazione delle carriere, perché la separazione delle carriere in questo Paese c’è già. Il fatto numerico rende giustizia di qualsiasi vostra propaganda o di qualsiasi vostra preoccupazione. Sono solo 28 i magistrati che, negli ultimi cinque anni, in media ogni anno, hanno fatto la separazione delle funzioni, su un totale di 8.800: lo 0,3 per cento. Questa legge non è la riforma costituzionale della separazione delle carriere: è la riforma costituzionale del raddoppio del Csm». Ci arriveremo. Dallo scranno senatoriale che fu di Berlusconi, rieletto nel 2022 dopo la decadenza per la condanna nel 2013, il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha dedicato la riforma al leader scomparso. E per spiegare quanto sia necessaria, ha citato alcuni casi di errori giudiziari o comunque di condanne poi ribaltate in successivi gradi di giudizio: il presentatore Enzo Tortora arrestato nel 1983, poi assolto in Cassazione da accuse di legami con la camorra, il pastore sardo Beniamino Zuncheddu incarcerato per 33 anni e poi assolto, e altri incarcerati e poi assolti. Casi problematici, ma non è ben chiaro perché la riforma della giustizia dovrebbe ridurre il tasso di errori giudiziari, se proprio vogliamo considerare un problema il fatto che un giudice ribalti il verdetto di un altro giudice, anche se sarebbe molto più problematico se ogni magistrato si sentisse in dovere di confermare anche le condanne che ritiene ingiuste per non screditare la categoria.
La separazione delle carriere è una soluzione a un problema che non esiste: ogni anno sono poche decine i magistrati che passano dalla carriera inquirente, quindi da pubblici ministeri, a quella giudicante. Lo ha spiegato il procuratore di Napoli Nicola Gratteri, contrario alla riforma, in una recente puntata di Otto e mezzo. Non si può quindi sostenere che ci siano giudici troppo indulgenti verso l’accusa perché prima erano stati dall’altra parte, sui banchi del pubblico ministero. Sembra di capire, quindi, che i promotori della riforma considerino sufficiente il fatto che pubblico ministero e giudice appartengano alla stessa categoria per rendere di fatto l’intera magistratura più sbilanciata a favore degli argomenti accusatori. Ci vorrebbero dati per sostenerlo, e non esistono, figurarsi delle analisi per stabilire un eventuale nesso di causalità. Resterebbe poi da spiegare se nei casi dei cosiddetti errori giudiziari il problema è dal lato dell’accusa o da quello della difesa. Se prendiamo per esempio il grande pasticcio di Garlasco, quali sono i magistrati che hanno sbagliato? Quelli che hanno accusato Alberto Stasi, la cui colpevolezza sancita da sentenza definitiva viene ora messa in discussione? Quelli che lo hanno assolto nei primi processi? Quelli che lo hanno condannato? Il procuratore che ha riaperto l’inchiesta? Non si sa. L’argomento della ipotizzata commistione tra pubblici ministeri e giudici non viene mai dettagliato dai promotori della riforma, tra i quali il ministro Nordio che è appunto un ex pm. Viene trattato come un assioma, un’ovvietà da non dimostrare, da cui discende il cuore della riforma. Cioè la rivoluzione del Csm. Oggi tutti i magistrati rispondono per le carriere e per le sanzioni disciplinari al Consiglio superiore della magistratura, composto da magistrati, membri indicati dal Parlamento, avvocati, e presieduto da Mattarella. La riforma prevede che il Csm attuale sia spacchettato in tre: uno per la magistratura d’accusa, uno per quella giudicante, e un’alta corte disciplinare. Il presidente della Repubblica presiede i primi due, l’alta corte da un membro laico, cioè non magistrato. I membri dei due Csm saranno estratti a sorte da liste predisposte dal Parlamento, per i laici, e tra i magistrati che rispetteranno certi requisiti da stabilire per legge. Questo è il vero intervento che sposta l’equilibrio di potere, non tra accusa e difesa, ma tra politica e magistratura.
SPOSTARE IL POTERE – Con lo sdoppiamento dei consigli superiori, svuotati di potere disciplinare, e con una nomina per sorteggio, si rompe il sistema attuale dell’autogoverno della magistratura, che si fonda su una compattezza di categoria, su un sistema di correnti che rispecchia – più o meno – il sistema dei partiti e che presidia percorsi di carriera, rapporti con governi e potere. Non c’è dubbio che la riforma indebolisca la magistratura come potere autonomo. E, di conseguenza, la riforma ridimensiona anche il ruolo del presidente della Repubblica come garante dell’indipendenza della magistratura: un conto è essere il riferimento unico di un ristretto gruppo di componenti di un solo Consiglio superiore, altro è essere il referente di due consigli, che fanno cose diverse.
La moral suasion del capo dello Stato sarà molto più difficile da esercitare. E questo non è un effetto collaterale della riforma, ma una delle sue caratteristiche desiderate dalla destra che ha sempre sofferto il ruolo del Quirinale come arbitro esterno ai rapporti di forza dei partiti. Ma qui finiscono le certezze e cominciano le opinioni, i timori, le esagerazioni per mobilitare i rispettivi elettorati.
Il sorteggio è stato evocato negli anni anche da molti magistrati di aree lontane da quella della destra berlusconiana o meloniana, ne ha scritto per anni su Il Fatto il magistrato, ora scomparso, Bruno Tinti. Dopo gli scandali degli anni di Luca Palamara, e l’infinito strascico di processi e polemiche che ha visto condannato persino l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, è difficile sostenere che il sistema delle correnti sia un presidio dei valori costituzionali e dell’indipendenza della magistratura migliore del sorteggio. I sorteggi, poi, bisogna sempre ricordarlo, garantiscono una certa imprevedibilità del risultato soltanto nel ristretto perimetro delle possibilità offerte dalle regole. Per capire se la scelta dei membri dei due Csm sarà davvero affidata alla sorte, insomma, bisogna prima capire i dettagli su come saranno formate le liste. Se poi la separazione delle carriere porterà a una progressiva sottomissione dei pubblici ministeri alle indicazioni politiche del governo, lo vedremo. Di sicuro, la destra oggi al potere ha un rapporto molto complicato con i giudici ai quali richiede di eseguire le indicazioni della politica, invece che di far prevalere la legge. Ma gli scontri non si contano più, che si tratti di immigrazione – con i tribunali di primo grado e le Corti di appello che fanno prevalere, come previsto dalla Costituzione, la legislazione europea su quella nazionale – o che si tratti di indagini sui singoli membri del governo: ogni inchiesta è vissuta come un’ingerenza del potere giudiziario da arginare. Abbiamo persino assistito a un governo che manda il capo dei servizi segreti, il direttore del Dis Vittorio Rizzi, a denunciare in procura a Perugia il procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi che aveva appena indagato la premier e mezzo governo per il rimpatrio del torturatore libico Osama Almasri. Insomma, non mancano gli elementi per sostenere che nell’approccio del governo c’è un intento punitivo nei confronti della magistratura.
COSA NON C’È – Detto questo, la riforma non prevede la sottomissione dei pubblici ministeri al potere esecutivo e dunque la possibilità per il governo di stabilire quali reati vadano perseguiti e quali messi in secondo piano. Sarebbe certo un gran problema se un governo potesse dire che, per esempio, gli scippi sulle metropolitane o gli stupri commessi da immigrati irregolari devono avere la priorità sulle indagini per mafia o corruzione. Rimane la teorica obbligatorietà dell’azione penale e l’indipendenza del pubblico ministero dalla politica. Due concetti previsti dalla Costituzione non sempre declinati nella realtà, visto che i pm hanno nella pratica grande discrezionalità su come muoversi, e che Camera e Senato sono pieni di ex magistrati passati in un attimo dalla toga al seggio. Niente di questa riforma ha a che fare con l’efficienza della giustizia, con la durata dei processi, con la garanzia di una risposta in tempi e modi equi, soprattutto per chi non ha le risorse per affrontare processi infiniti dai costi indeterminati. Questa riforma costituzionale è una questione di potere, di dove fissare il punto di equilibrio tra politici e magistrati. La politica ha fatto la sua mossa. Adesso tocca agli elettori. La premier Giorgia Meloni ha già fatto capire che non ha intenzione di sovrapporre la sopravvivenza del suo governo all’esito del referendum, per non ripetere l’errore di Matteo Renzi nel 2016. All’opposizione Elly Schlein e Giuseppe Conte si sono opposti con Pd e Cinque stelle alla riforma, ma ora bisognerà vedere quanto si impegneranno in una campagna per il No che la destra cerca di presentare come autodifesa corporativa dei magistrati. Come succede spesso in Italia, si sa come le campagne referendarie cominciano ma non come finiscono e con quali conseguenze di lungo termine.
