Le gemelle Kessler e la fine condivisa: andarsene così, dove si firma?

Tutti hanno il diritto di scegliere a cosa credere e come andarsene, ma è davvero grottesco che la politica non voglia riconoscere a tutti questo diritto
PESCARA. Arrivare alla soglia dei novant’anni come ci sono arrivate loro, ditemi, dov’è che si firma? Dare scacco matto all’ultima mossa, riuscendo ad essere – allo stesso tempo – il marchio di fabbrica, e addirittura l’inno alla nostalgia degli anni Sessanta, ma anche il gesto asciutto e laico che manca agli anni Duemila. Poterci raccontare, con una scelta, un vissuto importante e una morale difficile, non convenzionale, che più o meno oggi suona così: ho dato tutto, ho vissuto tutto quello che potevo, al meglio, adesso me ne vado. Dopo aver visto passare un secolo, me ne vado, e scelgo di farlo come voglio io.
A me le gemelle Kessler della giovinezza nel pieno della carriera non sembravano così belle come sono state descritte, ma trovavo straordinarie quelle della maturità, donne elegantissime nel portare le loro rughe come un blasone, e il loro carattere come una bandiera: adesso che abbiamo un’Italia affollata di plasticati e di plasticate osceni, di invertebrati e invertebrate che si dimenano scomposti, di conformisti e corifei che si squagliano come neve al sole, di egoisti che diventano prigionieri del loro benessere conquistato con successi mummificati dal tempo, dov’è che si mette la firma per provare ad essere come loro?
Nate in Germania, nella Repubblica democratica dell’est, emigrate nella repubblica Federale, quella dell’Ovest, furono scovate in un locale del nord Europa dagli emissari della Rai bernabeiana pedagogica e ricreativa di cui tutti nel bene o nel male siamo figli. Erano poliglotte in un tempo in cui ancora si faticava ad insegnare l’italiano e gli italiani, erano cosmopoliti quando conquistarono (casa per casa, e televisore per televisore) la nostra provincia. Alice ed Ellen Kessler sono state un talento regalato al nostro Paese, a cui però l’Italia ha restituito tanto: straordinarie nel recitare il loro personaggio, a vent’anni, straordinarie nel recitare i grandi drammi di Brecht a sessanta: la notte è piccola, troppo piccolina, ma loro erano grandi, troppo grandi, perché portatrici di un rigore che le rendeva marziali, anche quando ballavano in un succinto corpetto di paillettes luccicanti.
Le ricordo auto-ironiche nel recitare se stesse nell’indimenticabile cameo, con Alberto Sordi, nell’esilarante episodio di “Guglielmo il Dentone”: era il punto massimo della più perfetta commedia all’italiana ne I Complessi. Ma “le Kessler” non sono nel nostro immaginario perché avevano “due metri di gambe” (come purtroppo – persino ieri – ha scritto qualcuno) non sono state “bambole tedesche”, donne decorative, non sono la “nostalgia canaglia” dello stereotipo italiano in virtù del quale tutto quello che è collocato nel paesaggio emotivo del nostro passato diventa bello solo perché è perduto. Semmai il contrario. Le Kessler non sono “morte insieme”, con questa curiosa perifrasi dietro cui si nascondevano le idee scomode del fine vita o del suicidio assistito. Le Kessler sono uscite dalla vita così come ci sono entrate: da attrici protagoniste rigorose in un Paese che spesso si fa sedurre dal melodramma e dall’approssimazione del “quasi”.
Si può avere nostalgia di molte cose tempo di cui le Kessler sono state la colonna sonora: l’innocenza perduta di questa nazione, il suo Dna più antico, l’identità e i valori contadini – tanto per dire – che rendevano il nostro corredo solido e vero anche se non si era direttamente contadini, o figli di contadini. Pierpaolo Pasolini scriveva che la fine di quel mondo ci avrebbe portato in una “moderna preistoria”, diceva che “i capelloni” del Sessantotto gli facevano orrore, perché erano figli di un conformismo in cui tutto veniva omologato nella civiltà dei consumi. Carlo Levi, nel suo straordinario romanzo sul dopoguerra – L’Orologio – consegnò ad una pagina memorabile di letteratura, l’idea che in questo paese si poteva essere solo “Contadini” o “Luigini”, perché i primi vivevano del loro lavoro, e gli altri del lavoro altrui. Forse è ancora così. Adesso che è passato poco meno di un secolo, Dadaumpa è la perfetta colonna sonora di una legittima nostalgia perché nel nostro passato, purtroppo, sono rimaste anche delle cose straordinarie, di quelle stagioni, che avremmo dovuto portare con noi, nel presente.
Le Kessler che nel tempo della guerra globale consegnano la loro ricchezza (guadagnata con il talento) a Medicins sans frontieres, mi fanno pensare a questa cosmogonia di valori. Le Kessler che hanno cantato la leggerezza della Joie de vivre, ma decidono come e quando mettere fine alla loro vita, mi comunicano un grande sentimento di dignità e pudore. Perché lo fanno nell’unico modo in cui non si offende (sul tema più difficile), la libertà di nessuno: senza proclami e senza clamori. Le Kessler mettono punto due biografie, con la radicalità di un gesto che nel nostro paese è ancora indicibile, come apparentemente indiscutibile è il tabù della morte. Per questo tema, su cui il Parlamento da anni non trova il coraggio di legiferare, mi fa piacere che due ballerine della stagione spensierata ci diano una lezione di complessità.
Tutti hanno il diritto di scegliere a cosa credere e come andarsene, ma è davvero grottesco che la politica non voglia riconoscere a tutti questo diritto. Quindi, davvero, dov’è che si firma? Vorrei che in tanti arrivassimo alla soglia dei novanta così: non trasformate Alice ed Ellen in un fenomeno di costume, non parlate ancora delle loro gambe – piuttosto della testa, direi io – non ghettizzatele nel cliché: si sono imposte come donne, ci hanno conquistato come ballerine, sono diventate attrici, sono uscite di scena in punta di piedi, come testimoni di una laicità che non è ancora per tutti. Ditemi dov’è che si firma: non voglio le loro gambe, ammiro il loro cervello.
