L’intervista a Rula Jebreal, giornalista e scrittrice palestinese: «A Gaza è una strage e l’Occidente è complice»

La scrittrice, classe 1973, nata ad Haifa, presenta a Milano il suo nuovo libro “Genocidio. Quel che rimane di noi nell’età neo-imperiale”
MILANO. Milano. Rula Jebreal è appena arrivata da New York, dove vive, per presentare il suo ultimo libro “Genocidio. Quel che rimane di noi nell’età neo-imperiale” (Piemme, 2025). Mentre racconta della piccola Hind Rajab e delle ragioni che l’hanno spinta a scrivere, è costretta a fermarsi per riprendere fiato. La determinazione, però, non le manca. Giornalista classe 1973, la sua storia inizia da Haifa, in Israele. A cinque anni si trasferisce a Gerusalemme e il padre la affida al Dar Al-Tifel Al-Arabi (letteralmente “Casa dei bambini arabi”), il collegio-orfanotrofio fondato da Hind al-Husseini a Gerusalemme. Una «tappa fondamentale» per la sua crescita, mi spiega. A 20 anni il suo destino si incrocia con quello del nostro Paese: grazie a una borsa di studio, si trasferisce a Bologna per studiare. Ma non scorda le sue radici. Inizia il suo attivismo in Italia per la Palestina e i palestinesi. Contemporaneamente, si fa strada come giornalista, arrivando a condurre alcuni talk-show su La7 come "Omnibus estate”. Oggi, da attivita femminista ed esperta di Medio-Oriente, lavora per alcuni tra i più importanti network statunitensi come Cbs e Cnn. Come si può intuire dal titolo del libro, Jebreal ha le idee molto chiare su quello che sta accadendo a Gaza, sulla complicità dell’Occidente e sul «male che, inevitabilmente, gli si rivolterà contro».
Qual è stato il momento in cui si è detta «ora è il momento di scrivere un libro su quello che succede a Gaza»?
«Era inizio febbraio dell’anno scorso. Mi chiama una produttrice della Cnn: “Sono arrivati video e audio di una bambina, si chiama Hind Rajab, che cerca di scappare da Gaza Nord».
Cosa succedeva nel video?
«La piccola, di cinque anni, era in macchina insieme alla sorella e alla zia quando un carro armato si è parato davanti a loro e ha sparato. Lei si è miracolosamente salvata, riuscendo a uscire dalla macchina e a chiamare la Croce rossa».
Cosa diceva al telefono?
«Era disperata. Gli operatori sono stati ore al telefono con lei. Hind Rajab supplicava per la sua vita e descriveva quello che aveva intorno. Il cannone del carro armato puntato contro, la zia e la sorella morte, ad appena un paio di metri di distanza. Poi c’è stata una potentissima raffica di mitra, ed è calato il silenzio. Sa quanti colpi le hanno sparato?»
Quanti?
«Trecentocinquanta, trecentocinquanta proiettili contro una bambina. Come si può arrivare a questo?»
Cosa ha provato vedendo tutto ciò?
«Ero in macchina, attraversavo una di quelle grandi autostrade americane che si vedono nei film, e ho dovuto accostare. Ero in shock, non capivo – come non capisco ora – come si possa uccidere una bambina senza impazzire».
In quel momento ha deciso di scrivere.
«Mi sono sentita obbligata. E non solo perché sono palestinese e una madre. L’avrei fatto comunque: non si può essere indifferenti di fronte alla disumanità».
Lei conosce bene la società israeliana. Israele e Netanhyahu sono la stessa cosa?
«Sa, per voi questo è il primo genocidio in diretta televisiva. Per noi no. Io il primo massacro l’ho visto nel 1982, quando avevo 8 anni. Era quello di Sabra e Shaliva, in Libano. Fu opera dell’allora generale Ariel Sharon».
Che reazioni ci furono in Israele?
«Scesero in piazza in 400mila per manifestare contro quella violenza. Le proteste da parte della diaspora furono feroci, anche Primo Levi sollevò il caso. Nel 1987, allo scoppio della prima Intifada, la società israeliana era spaccata, con una buona parte che giudicava criminale la dittatura militare a cui erano sottoposti i palestinesi».
Cosa è cambiato?
«Gli accordi di Oslo del ‘93 hanno rappresentato un punto di svolta per l’estrema destra israeliana».
Perché?
«Per la prima volta gli estremisti hanno visto un premier israeliano dare un pezzo di terra ai palestinesi mentre, fino ad allora, l’unica idea considerata accettabile era quella della nostra espulsione in massa».
Poteva essere il punto di svolta per la soluzione a due Stati?
«Con Rabin la possibilità di un compromesso politico stava diventando concreta. E allora l’estrema destra ha montato su una campagna d’odio che poi ha portato all’uccisione di Rabin per mano di un fanatico religioso».
Era il 1995.
«La pallottola sparata contro Rabin ha fatto una strage: non ha ucciso solo lui, ma anche gli accordi di pace e la sinistra, che non si è più ripresa».
La sua storia, Rula, è profondamente intrecciata a quella della Palestina. Nel 1987, quando scoppiò la prima Intifada, aveva 14 anni.
«Il mio attivismo è iniziato allora. Mia sorella, i miei cugini, tutta la famiglia: eravamo ragazzini impegnati. Andavano alle manifestazioni».
Cosa chiedevate?
«Diritti, legalità internazionale. Le risoluzioni Onu sui due popoli e i due Stati. Mia sorella è stata la prima donna ribelle che ho incontrato nella mia vita. Mi ha fatto capire cosa significasse essere donna».
A quei tempi viveva a Gerusalemme: com’era?
«Il controllo degli israeliani era massiccio, soprattutto nella parte est della città. Ma c’era una cosa interessante, che risaliva a molto prima della Nakba del 1948; le comunità coesistevano in maniera pacifica. Sa chi è che gestisce la chiesa del Santo Sepolcro?».
Racconti.
«Le chiavi della chiesa le hanno due famiglie palestinesi. Una si occupa di aprire e chiudere la chiesa, l’altra pulisce, organizza la sicurezza e il resto. È una tradizione che va avanti da centinaia di anni. Sembra incredibile oggi, no?»
E poi, che è successo?
«Che Israele ha deciso di sostituire la coesistenza con la colonizzazione. A un certo punto si è deciso che dovevano essere tutti israeliani. E secondo me questo ha alterato la realtà secolare di Gerusalemme, che era una città magica, cosmopolita, multiculturale e multietnica. Ricordo bene che nel tragitto casa-scuola ascoltavo 8 o 9 lingue diverse».
Cosa rappresenta per lei questa città?
«Tante cose. Se però mi chiede quand’è che capisco di essere tornata, le rispondo che è quando cammino tra gli ulivi che mio padre ha piantato intorno alla Spianata delle moschee».
Gli ulivi sono un simbolo della Palestina.
«Mio padre ne ha piantati centinaia. Erano la sua eredità. Ogni volta che torno questi alberi sono sempre meno, perché li bruciano. È terribile».
Ha parlato di sostituzione della coesistenza con la colonizzazione, come è successo?
«Ha cominciato a esserci polizia ovunque. È nata una prigione, che esiste ancora, dove praticano le torture. Nella città più sacra al mondo, che ha sempre abbracciato l’umanità nel suo complesso, oggi vedi solo bandiere di Israele. Sa cos’è la “Flag march”?».
Spieghiamolo ai lettori.
«Nel libro lo racconto. È una manifestazione dell’estrema destra israeliana che si svolge annualmente a Gerusalemme. È iniziata negli anni ‘80. Quel giorno la città diventa una prigione vera e propria per noi arabi: non possiamo uscire di casa. Loro sfilano per tutta la città urlando degli slogan irripetibili. C’è della violenza terrificante in tutto questo».
Un esempio di slogan?
«Un ebreo è un'anima, un arabo è figlio di una prostituta».
In quegli anni, quando l’estrema destra cominciava a prendere spazio, qual era la vostra percezione di ciò che stava accadendo?
«Una volta il presidente Kennedy ha detto: “Se annienti lo spazio politico ed elimini qualsiasi risoluzione basata sul dialogo, apri lo spazio a una rivoluzione violenta”. Per me era chiaro che, senza riconoscimento di Stato e diritti per i palestinesi, l’unica conseguenza possibile era la vittoria delle fazioni più radicali. E infatti Hamas ha vinto».
Poi c’è stato il 7 ottobre.
Gli attacchi terroristici di Hamas sono stati l’opportunità perfetta per rafforzare la narrazione che tutti i palestinesi sono la stessa cosa. E così la “Nakba” del 1948 non è mai finita. La scelta per i palestinesi è stata sempre: “O ve ne andate dalla vostra terra o verrete uccisi”».
Oggi Netanyahu parla apertamente di occupazione totale di Gaza.
«Ha gettato via la maschera, perché ha capito che può agire nell’impunità. Riceve un mandato di cattura dalla Corte penale internazionale e i Paesi occidentali lo tranquillizzano, dicendo che non lo arresteranno».
Molti parlano di indifferenza da parte dell’Occidente.
«Troppo facile parlare di indifferenza: è complicità. Come scrivo nel libro, noi siamo di fronte a un genocidio israeliano-occidentale. Il 50% delle bombe che vengono sganciate su Gaza sono europee. E non lo dico io, ma Joseph Borrell, l’ex alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione europea».
C’è però un politico che sembra si sia posto contro l’azione di Netanyahu: Donald Trump. Da giorni dai media americani rimbalza la notizia che si sia consumato uno strappo. Lei crede sia vero?
«Trump è sempre stato contro la guerra in Iraq. Pensa che abbia danneggiato il Medio Oriente e destabilizzato il mondo. E su questo ha ragione».
Dunque, siamo nell’epoca del Trump-acifismo?
«Più semplicemente, Trump è un uomo d’affari. Sia nella campagna elettorale del 2016 che del 2024 si è dichiarato contro le guerre. D’altra parte, in vent’anni di guerra al terrore, gli Usa hanno speso settemila miliardi di dollari».
Tutti i repubblicani sono con lui?
«La maggioranza sì. Parliamo di quelli di “America first”, che vedono in Netanyahu un falco che vuole continuare le guerre con soldi, armi e protezione americani».
Per un po’ Trump lo ha sostenuto. Si ricorda il video, fatto con l’intelligenza artificiale, di Gaza ricostruita a lusso, con grandi hotel, casinò e una sua enorme statua d’oro?
«All’inizio lo ha appoggiato, ma secondo me c’è stato un momento preciso in cui Netanyahu ha superato la linea».
Cioè?
«Quando è andato alla Casa Bianca con i piani di attacco contro l’Iran. Lo strappo è avvenuto allora. E infatti, subito dopo l’incontro, Trump si è presentato in sala stampa e ha detto: “Noi stiamo trattando direttamente con Teheran”».
Una cosa che Biden non ha fatto.
«L’ultimo sondaggio dice che il 29% delle persone che si sono astenute nel 2024 dal votare Kamala Harris lo hanno fatto per Gaza. I democratici sono complici del massacro dei palestinesi e non si rendono conto che lì, tra le macerie e i corpi, è l’Occidente stesso che sta morendo».
Che intende?
«Se non riesci a far sentire la tua voce di fronte a una violazione così palese del diritto internazionale, di fronte a un genocidio di queste dimensioni, vuol dire che stai facendo crollare l'intera architettura di regole e convenzioni costruita dopo la Seconda guerra mondiale per prevenire queste atrocità. Tutto questo si rivolterà contro l’Occidente».
Si riferisce alla radicalizzazione islamica?
«Tutto ciò che è stato fatto prima: Iraq, Afghanistan è nulla rispetto a quello che sta succedendo a Gaza. L’Occidente è nudo di fronte al resto del mondo, che lo guarda con odio. Forse nessuno se ne è reso conto, ma Netanyahu si è legato a doppio filo con l’Occidente e lo trascinerà a fondo con sé».
Si spieghi meglio.
«Prima o poi, quando Netanyahu verrà processato, lui dirà che gli europei lo hanno aiutato, che se vogliono processarlo devono processare anche Biden, Meloni, Starmer e compagnia».
Da come ne parla, l’Occidente ha le sembianze di un malato terminale.
«Terminale no, perché si può ancora salvare. È vero, i governi sono criminali, complici di crimini contro l’umanità, di assistenza a questo genocidio. Ma la società civile è straordinaria, ci sono state manifestazioni in tutto il mondo. Gente disposta a rischiare arresto, censura, licenziamento solo per raccontare la verità».
Sottintende una distanza fortissima tra governati e governanti, quando sono i primi a eleggere i secondi.
«Io non ho mai visto una dicotomia così in tutta la mia vita: i governi totalmente complici e la società civile totalmente solidale. Dopo quasi 600 giorni di genocidio coloniale, anche le persone che non si occupano di politica dicono che non è possibile. E non ce l’hanno solo con Israele, ma anche con i loro governi».
Che sia per indifferenza o complicità, ma l’Europa sul conflitto non riesce a incidere.
«Ho l’impressione che gli europei permettano questo anche perché fanno fatica ad accettare che non solo i nipoti dei sopravvissuti all’Olocausto non hanno rispettato la memoria e la promessa del “mai più”, ma che siano anche diventati gli autori di un genocidio coloniale. Significherebbe ammettere di aver fallito due volte».
Abbiamo attraversato il presente e il passato della sua terra, manca il futuro. C’è ancora speranza?
«La stanno uccidendo, giorno dopo giorno. Le voglio raccontare un’ultima cosa».
Prego.
«Ho perso mia sorella qualche anno fa. Ora lei è sepolta in un bellissimo giardino sul mare, un posto magico. Prima io, lei e alcune amiche collaboravamo con un orfanotrofio che è stato abbattuto dai raid israeliani. Si chiamava “Hamal”, che in arabo significa “speranza”».
Un nome che oggi suona come un paradosso tragico.
«Ci sono migliaia di bambini che, a quasi due anni dalla guerra, non hanno nemmeno trovato la pace della terra. Non riusciamo a trovare il modo di seppellirli. La verità è che non ci vedono più come esseri umani. Pur nella tragedia, sono contenta che mia sorella non abbia visto tutto questo: quando se ne è andata, almeno, c’era ancora speranza».
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