L’intervista del Centro a David Parenzo: «L’Iran è l’elemento comune del terrore in Medio Oriente»

18 Giugno 2025

Il giornalista di La7 è in libreria con “Lo Scandalo Israele”, «Oggi un ebreo si sente più al sicuro a Dubai che non a Parigi»

ROMA. «Io non amo Israele perché un testo mi dice di farlo o perché sono ebreo. Io amo Israele perché me lo dice il cuore». David Parenzo ci riceve nel suo studio a Roma, in un ufficio dove ci sono, dietro una teca, la bandiera americana, una foto dei soldati israeliani al muro del pianto nel 1967, la locandina di uno spettacolo teatrale da lui scritto: Ebreo. Giornalista per La7, dove conduce L’aria che tira, conduttore radiofonico con Giuseppe Cruciani per La Zanzara, oggi è in libreria con Lo Scandalo Israele (Rizzoli).

Esce nelle librerie di tutta Italia a venti mesi dagli attacchi di Hamas contro Israele, in quel 7 ottobre 2023 che tornerà spesso nella conversazione. Ma esce anche pochi giorni prima degli attacchi condotti da Israele contro l’Iran: è notizia recente ma siamo già consapevoli di essere davanti a una pagina fondamentale della Storia. Nel mezzo, a Roma sono scese 300mila persone per protestare contro il massacro di Gaza. Dentro la nostra lunga conversazione troverete questo e tanto altro. Anzi, partiamo dall’altro.

Parenzo, è vero che lei è stato il primo ebreo internato ad Auschwitz dopo il ’45?

«Non ero solo».

Com’è successo?

«Eravamo io e Riccardo Pacifici, vicepresidente dell’European Jewish Association. Stavamo facendo delle riprese con la troupe di Matrix (il programma tv, ndr). Ovviamente con tutte le autorizzazioni».

Poi?

«Ci siamo resi conto che erano andati tutti via, cancellate chiuse. Eravamo bloccati lì dentro. Abbiamo subito cercato aiuto, provando ad attirare l’attenzione delle telecamere di sorveglianza. Nulla da fare e intanto scendeva il freddo della notte».

Chi vi ha salvati?

«Dopo lunghi giri di telefonate sono intervenute l’ambasciata italiana in Polonia e l’unità di crisi della Farnesina».

Nei reportage portava la kippah, ma da ragazzo era un giovane progressista dei Ds (Democratici di sinistra). Come ha fatto convivere questi due spiriti nella sua vita?

«Non ci vedo la contraddizione. Ho seguito quella strada antesignana che ha portato poi, con Fassino, alla Sinistra per Israele con cui mi sono sempre identificato».

Ma in piazza con la sinistra anche lei indossava la keffiah?

«Io al massimo giravo con il loden verde, come Monti. La keffiah mi faceva orrore, è il simbolo di un’ideologia da sinistra macchiettistica che puoi trovare in un liceo classico».

Ci spiega cosa intende per “ideologia da sinistra macchiettistica”?

«Chi portava la keffiah lo faceva in onore dell’intifada, che è una balla colossale per come ce la siamo raccontata per anni. Parlo della favoletta di Davide contro Golia, dei palestinesi con le pietre contro gli israeliani con i mitra».

Non è così?

«No, per anni a coprire le spalle ai palestinesi c’erano i Paesi arabi e cosa più importante di tutte, per un lungo periodo, l’Unione Sovietica».

Condizioni comparabili?

«Non solo, le dico di più: Israele se l’è dovuta vedere perfino con la stagione del terrorismo, degli attentati nei pullman, per le strade, nelle discoteche. Mi pare che oggi si faccia fatica a ricordare la violenza, la brutalità dei kamikaze. L’orrore del radicalismo islamico è partito da lì».

Oggi però se accendiamo la tv, apriamo un giornale, vediamo che Israele uccide civili, bambini. Quest’orrore come se lo spiega?

«Che i bambini muoiano è un fatto, sono vittime civili di una guerra sporca e schifosa. Ma la vera, terribile risposta a quello che mi chiede, per me, l’ha data in un’intervista nell’ottobre del ‘23 Abu Marzouk, responsabile delle relazioni internazionali di Hamas».

Cioè?

«Un giornalista gli chiese dei tunnel, che a Gaza formano una rete sotterranea di 500 chilometri. Hamas ha speso un miliardo di dollari per realizzarli. Domanda: perché non ci mettono i civili?».

Cosa rispose?

«Cito testualmente: “I tunnel sono per i miliziani di Hamas, i civili sono sotto la diretta responsabilità di Israele”. Tradotto: a loro dei civili non interessa».

A Netanyahu invece importa degli ostaggi?

«Mi auguro di sì, spero che faccia davvero tutto il possibile per riportarli a casa. Detto questo, Netanyahu è una persona molto cinica e dovrà rispondere del crimine più grande…».

Quale?

«Non ha garantito la sicurezza di Israele, ha tradito il suo popolo e non l’ha protetto. Dopodiché c’è tutta l’atrocità di una guerra condotta, dopo il sette ottobre, in quelle modalità e per un tempo infinito».

E questi spunti ci portano all’Iran: le ultime pagine del suo libro sono quelle dedicate a Khamenei, ayatollah iraniano nel mirino di Israele. Questo attacco oggi è un evento spartiacque.

«Sì, mostra la straordinaria capacità di organizzazione del Mossad. Netanyahu aveva un disegno sin dall’inizio, anzi queste operazioni sono state costruite già dai governi precedenti. Tutti oggi in Israele riconoscono nell’Iran il problema principale».

Ci aiuti a capire.

«Ci hanno sempre raccontato che in Medio Oriente era Israele a rappresentare un problema e un ostacolo alla pace. Credo che adesso tutti possano capire che è l’Iran il problema, comune denominatore del terrore che c’è in quell’area: c’è l’Iran dietro Hezbollah, dietro Hamas, dietro gli Huthi».

Immaginiamo lo scenario per cui Khamenei viene ucciso e cade il regime teocratico: ci sono forze in Iran con cui Israele può dialogare?

«Intanto direi che è una buona notizia se cade il più grande fattore di instabilità del Medio Oriente. Quindi da lì in poi non sarà compito di Israele decidere chi verrà dopo, quello che può fare è contribuire al risveglio del leone del Medio Oriente»

Tradotto?

«Si devono creare le condizioni perché le nuove generazioni in quei territori possano nascere e crescere in uno stato di libero mercato, libera espressione. Ci sono migliaia di giovani iraniani che scelgono di studiare nelle grandi università europee, occidentali. Secondo lei perché? Può esistere un Medio Oriente di pace».

Come spiega la falla di sicurezza del 7 ottobre dopo la puntualità di questo attacco del Mossad?

«Credo che Israele abbia sottovalutato all’epoca la minaccia, pensando di avere la situazione sotto controllo. Evidentemente non era così. Mi auguro che si convochi al più presto quella commissione dello Shin Bet per cui Netanyahu licenziò Ronen Bar».

Una storia piena di ombre, partendo proprio dal licenziamento di Bar…

«Da parte mia c’è il rifiuto totale delle teorie cospirazioniste che girano attorno al 7 ottobre. L’unica cosa che penso è che ci fosse una percezione maggiore del controllo anche attraverso i checkpoint. Perché non dobbiamo dimenticare che ogni giorni migliaia di palestinesi vanno a lavorare in Israele».

Tra le ragioni per cui lei si rifiuta di parlare di genocidio palestinese.

«Quella di Gaza è una tragedia ma come ho già detto più volte, non è un genocidio, non è pulizia etnica. Ci sono oltre due milioni di Palestinesi che vivono in Israele, paese in cui tra l’altro i partiti arabi sono liberi di presentarsi alle elezioni. E le dirò di più: sono stanco di chi, come ho sentito anche in questi giorni, paragona la Shoah alla Nakba o a quello che succede anche oggi».

Cosa cambia?

«La Shoah era il tentativo di realizzare quella che veniva chiamata la “soluzione finale”, la cancellazione di un popolo. La Nakba è ben altra cosa e ci si dimentica sempre di ricordare che avvenne dopo che i Palestinesi rifiutano la risoluzione dell’Onu di due Stati e due Popoli. Come diceva Abba Eban: “I Palestinesi non hanno mai perso occasione per perdere un’occasione”».

Ma il 7 giugno a Roma trecentomila persone non la pensavano così. Lei c’era?

«Non sono andato. L’unica manifestazione a cui sento di voler partecipare è quella del 25 aprile e lo faccio con la brigata ebraica, prendendomi puntualmente i fischi».

Chi la fischia?

«Gli ignoranti che confondono la stella di David con lo Stato di Israele. Un’associazione automatica che risveglia quell’odio atavico antisemita e antisionista».

Alla manifestazione hanno fischiato anche Gad Lerner. Una piazza antisemita?

«Non lo direi mai. Era però una piazza imbevuta di ideologia, mossa dall’onda emotiva della tragedia di questa guerra. I fischi a Gad Lerner sul tema del sionismo dimostrano che le leadership politiche che hanno indetto la manifestazione non hanno avuto la maturità di spiegare con lucidità a quelle 300mile persone cosa sia il sionismo».

Giuliano Ferrara dice che di Gad (Lerner) in Israele ce ne sono tanti. Questa spaccatura nella comunità ebraica la mette a disagio?

«No e mi è dispiaciuto molto per i fischi. Detto questo non tollero alcune cose del suo discorso, per esempio il fatto di dire continuamente di essere ebreo».

Cosa c’è di sbagliato?

«Non si possono fare appelli a nome degli ebrei, come se fosse un gruppo chiuso in cui uno parla per tutti. Chi non firma l’appello di Gad diventa un promotore dell’annientamento dei palestinesi, secondo questa logica. No, Gad Lerner rappresenta solo sé stesso, non tutti gli ebrei della diaspora».

Ha trovato più convincente la piattaforma di Renzi e Calenda?

«Non sono andato neanche lì ma condividevo quel modo di raccontare il conflitto: due bandiere sventolate insieme, due testimonianze che si completavano bene».

Ma lei non crede nella formula “Due popoli, due Stati”.

«No. Non solo è obsoleta, ma è proprio idiota. C’è un solo Stato, quello di Israele, democratico. Dall’altro lato non c’è mai stato neppure l’embrione di uno Stato che abbia il profilo di una democrazia liberale».

Sarebbe l’unica forma di governo accettabile?

«Perfino la sinistra israeliana oggi si rende conto che avere come vicino di casa un governo che non sia democratico è un rischio impossibile da poter correre».

Quindi la formula qual è?

«Due popoli, due democrazie. Non è impossibile, se cambiano le leadership».

Anche quella israeliana, mi permetta. Vista oggi non mi sembra un faro per la democrazia.

«Certo, ma le contraddizioni di Israele sono quelle di qualsiasi altra democrazia occidentale. Così sono le coloriture di un governo di destra. In Germania c’è Alternative für Deutschland, oggi il secondo partito del Paese».

Invece Itaman Ben Gvir è ministro della Sicurezza. Uno che diceva che sputare agli arabi è una vecchia tradizione. Che ha minacciato con la pistola un arabo disarmato in un parcheggio.

«Sì, lo racconto nel libro. Per me è un impresentabile, uno che non ha passato i testi per entrare nell’Idf. Questa per me è la cosa più grave, che al governo oggi ci sia chi fu considerato un esaltato dall’esercito del Paese».

E nel suo ufficio c’era il ritratto in bella mostra di Baruch Goldstein, che uccise decine di civili arabi…

«Le dico di più: l’assassino di Rabin era uno che militava proprio nel vecchio partito di Ben Gvir. Il punto è capire se il ministro israeliano, nelle sue follie che io stesso condanno, sia un ministro fuorilegge oppure no. La Corte Suprema di Israele dice di no».

Quella Corte Suprema che legalizzò l’acquisizione delle terre saccheggiate?

«Beh, ci sono processi ancora in corso su questo…»

Dopo Ariel Sharon c’è sempre stato il beneplacito per l’acquisizione anche delle terre private.

«Però è la stessa Corte che boccia la riforma della giustizia di Netanyahu, questo non è di poco conto. Il punto cruciale è capire se chi governa si muove o meno nel perimetro della legalità e se Israele ha gli anticorpi, come democrazia, per sopravvivere a queste contraddizioni».

La vecchia proposta di Marco Pannella di inserire Israele nell’Unione Europea oggi sembra una provocazione?

«Ormai è troppo tardi. Quando lo disse Pannella c’era un Medio Oriente completamente diverso, oggi paradossalmente è più sicuro».

Spieghiamo questo punto.

«Il Medio Oriente di oggi, sciogliendo il nodo Iran e risolvendo il problema Hamas, è molto più stabile. Oggi i Paesi del Golfo sono pronti a riprendere gli Accordi di Abramo, l’unica cosa buona fatta da Dondald Trump. Quegli accordi saranno la chiave per la stabilizzazione ulteriore del Medio Oriente. Quella proposta tra l’altro immaginava anche l’ingresso della Turchia».

Che Turchia sarebbe stata quella nell’Unione Europea?

«Non avrebbe avuto l’Erdogan di oggi. Forse sarebbe stata simile all’Ungheria di Orban: un modello che mi fa schifo, beninteso, ma molto mitigato rispetto a ciò che avrebbe rischiato di essere se non fosse inserito nell’Unione. Dico che oggi non ha senso per motivi puramente geopolitici».

Ma gli europei che sentimento nutrono per Israele?

«Le rispondo con una battuta paradossale: oggi un ebreo gira più serenamente a Dubai che non a Parigi».

Perché?

«Da Europei non riusciamo a superare quello “scandalo” che è Israele, un’anomalia agli occhi del mondo. Mi sembra che abbia vinto, lo dico estremizzando un concetto, la narrazione iraniana: oggi in Occidente c’è tanta gente che vede Israele come un cancro conficcato nel Medio Oriente».

In questo scenario il Papa che ruolo può avere?

«Bisogna scindere: nel corso degli anni il dialogo giudaico-cristiano ha funzionato benissimo, con un osmosi sconvolgente. Direi dalla visita di Giovanni Paolo alla comunità ebraica di Roma. Quella cosa lì mi sembra che sia rimasta, anche sotto un papa come Francesco che non aveva alcuna simpatia verso Israele. Ma quei rapporti erano e sono ancora solidi, sopravvissuti a quel periodo».

Con Leone XIV che stagione si apre per questo dialogo?

«Direi di grande dialogo, ma consideriamo che la Chiesa ha un vertice e uno zoccolo consolidato. Indipendentemente dal vertice, esiste uno zoccolo duro di quel dialogo, con radici fortissime che sopravvivono anche a Bergoglio».

Ma anche i leader devono dialogare. Mi dice chi potrebbe dare una guida moderata, di dialogo al governo di Israele?

«L’ideale sarebbe un governo unitario che comprenda anche le opposizioni, bilanciato e di confronto tra le parti».

Mi faccia un nome.

«Yair Lapid, uno dei più accaniti oppositori di Bibi».

Un nome plausibile?

«No, è più probabile che vinca un partito centrista, moderato».

Una previsione?

«Benny Ganz, ex presidente della Knesset».

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