Marco Mancini: «Sono l’agente segreto che ha difeso l’Italia col controspionaggio»

L’intervista all’ ex agente dei servizi segreti. L’incontro all’autogrill con Renzi: «Uno scambio di auguri» e i rischi del mestiere: «Tuttora temo per la mia vita»
Custode di segreti, silenzi e, forse, verità nascoste. Che per mezzo secolo ha sussurrato all’orecchio dei potenti d’Italia - e non solo – nei panni dello 007 responsabile del controspionaggio e del controterrorismo italiano per l’intelligence. Celebre quel controverso video in un autogrill a Fiano Romano quando incontra Matteo Renzi durante una crisi di governo. Immagini poi mandate in onda nel maggio 2021 dalla trasmissione Report, ad alimentare un mistero entrato nella lista dei tanti di questa Repubblica. Una volta, catturato in Iraq, inghiottì una sim telefonica in un pezzo di pane per non mettere a repentaglio colleghi e fonti. Solo una delle tante storie nello scacchiere dello spionaggio. Marco Mancini sarà in Abruzzo venerdì per l’incontro “Le regole del gioco”, come il titolo del suo libro.
Lei ha iniziato la sua carriera come carabiniere nel reparto speciale del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Che ricordi ha di quel periodo?
«Mi sono arruolato nel 1979, proprio per andare nel reparto del generale: la sezione speciale anticrimine di Milano. L’Italia era sotto l’attacco dei terroristi e lo stratega, capace di combattere quel terrorismo, era il generale Dalla Chiesa. Grand’uomo. Con lui ho contribuito a contrastare il terrore, quello di sinistra come quello di destra».
La sua missione eccellente?
«La cattura di Sergio Segio, detto comandante Sirio, il terrorista più ricercato in Italia e in Europa a quel tempo. Aveva ucciso diverse persone, tra cui i giudici Guido Galli ed Emilio Alessandrini. Abbiamo avuto la possibilità di catturarlo in viale Monza, mentre si incontrava con un’altra appartenente alle Brigate Rosse. A differenza di quello che lui ha fatto con altre persone, non ho premuto il grilletto. Quando gli ho puntato la mia 38 Special alla nuca gli ho solo detto: Sirio – chiamandolo col nome di battaglia – carabinieri. Arrenditi. E si è arreso».
E se non si fosse arreso?
«Avrei fatto un uso legittimo delle armi, nelle condizioni previste dal codice penale. A differenza di Sirio, noi non siamo mai stati degli assassini».
E nei servizi segreti come ci è finito?
«Mi stavo congedando dall’Arma dei carabinieri, avevo finito nel 1984, e volevo anch’io concorrere in magistratura. Ho incontrato il mio professore di religione, don Isidoro, che conosceva l’allora direttore del Sismi, il generale Ninetto Lugaresi. Mi convocò e sei mesi dopo quell’incontro mi sono congedato e sono entrato nei servizi segreti».
La sua famiglia era al corrente della sua vita?
«Allora… quello che lei vede nei film non è la realtà. Certo che ne era al corrente, uno non può sparire, andare in Iraq, in Afghanistan, in Somalia, in Pakistan e dire a sua moglie: “guarda cara, ci vediamo tra sei mesi!” La famiglia era a conoscenza del lavoro, ovviamente non dei dettagli. Ho fatto una vita abbastanza riservata, a volte segreta».
Ha mai temuto per la vita dei suoi cari e per lei stesso?
«Certo. E tuttora temo. Perché ci sono tante persone che vogliono fare del male al nostro Paese e a chi l’ha servito. Come nel mio caso».
In una democrazia moderna, fino a che punto i servizi segreti devono essere trasparenti nei confronti dei cittadini?
«È la legge che lo prevede. A parte alcune procedure che sono sottoposte al vincolo della massima riservatezza, ovvero al segreto di Stato, per cui in quel caso solo il presidente del Consiglio dei ministri può conoscere alcune attività dell’operato dei servizi segreti».
E sul caso Almasri? Com’è possibile che si trovasse in Italia? E secondo lei c’è stato qualche errore da parte della politica?
«Se una persona viene espulsa dal ministro dell’Interno per motivi di sicurezza, evidentemente c’è stato qualche errore. Il solo fatto che sia stato espulso sta a significare che non poteva entrare in Italia. Poi, peraltro, se n’era andato pure allo stadio… Quindi sì, ci sono stati degli errori, bisogna solo valutare se gli errori sono stati a livelli tecnici o se sono stati di altro tipo».
E sul famoso incontro con Matteo Renzi in autogrill com’è andata?
«Guardi, com’è andata l’ho scritto nel mio libro “Le regole del gioco”, basta leggere e si capisce l’accaduto. È andata che ogni anno sotto Natale faccio gli auguri a conoscenti e amici. Avevo appuntamento con il senatore Renzi al Senato della Repubblica e invece Renzi ha cambiato idea e mi ha detto di andare verso l’autogrill. Quei tredici minuti mi sono costati caro. Un semplice scambio di auguri natalizi e ho perso il posto di lavoro».
Pensa che possa essere stata un’imboscata? Che qualcuno era lì ad aspettarvi per riprendere la scena?
«Siamo davanti a un giudice e vedremo l’iter processuale che ci sarà. Non aggiungo altro».
Senta, perché è importante fare un convegno e parlare di segreto di Stato?
«Perché a mio giudizio non è ben conosciuto. Ci sono solo poche sentenze, peraltro della Corte Costituzionale, che ne sviluppa i metodi, le procedure e anche la fattibilità; quando o come si può apporre il segreto di Stato. Credo che sia importante che questo strumento giuridico cominci a entrare nella logica e nella dialettica degli italiani».
Rifarebbe tutto della sua vita?
«Ho servito il mio Paese onestamente. Ho servito i miei concittadini e spero di aver salvaguardato la loro sicurezza. Ma credo di sì. Rifarei quello che ho fatto, cioè scegliere a 18 anni di arruolarmi per poi entrare nei servizi segreti, decidendo ovviamente di servire sempre, sempre, sempre il mio Paese».
Altra vicenda – controversa – che l’ha vista protagonista è quella di Nicola Calipari. Come andarono i fatti? E perché fu ucciso?
«Guardi io non sapevo neppure che Nicola, un mio amico, un eroe, fosse andato in Iraq. Quindi non so come si siano svolti i fatti. Ho appreso solo successivamente, da un mio collega, che dovevo recarmi a Palazzo Chigi per poi andare a riprendere la giornalista Giuliana Sgrena e riportarla in Italia».
Però gli americani non vollero farle vedere il corpo di Calipari. Non le parve anomalo?
«Questo dovrebbe chiederlo agli americani. Posso dirle che noi agenti, arrivati a Baghdad, solo dopo notevoli insistenze siamo riusciti a eseguire le disposizioni ricevute dal direttore Pollari».
Senta, che cos’è il controspionaggio offensivo? Una sua invenzione?
«È un metodo, un intus legere, un leggere l’intelligenza. Come leggere tra le righe di un foglio bianco. Bisogna esserci sempre, nel posto giusto, nascosti, invisibili, ma essere sul posto. Sentire le frustrazioni di un popolo, per esempio, conoscere il miserabile tugurio dove un leader terrorista si inchina nella preghiera. Questo è il controspionaggio offensivo: cioè entrare a contatto con le persone, reclutare fonti, entrare all'interno delle organizzazioni terroristiche, entrare anche là dove tutto sembra che sia quieto».
Lei ha fatto riferimento al terrorismo. Francia, Inghilterra, Spagna hanno subìto attacchi dal terrorismo islamico. L’Italia no. Grazie a questo modo di operare?
«Le racconto un fatto».
Dica.
«Diciamo che la risposta più eloquente del controspionaggio offensivo l’abbiamo avuta nel settembre del 2004. Era un venerdì 17 quando abbiamo catturato Ahmad Mikati, leader di Al Qaeda in Libano, latitante ricercato da tutti i servizi segreti del mondo, con tre ergastoli da scontare. E con lui abbiamo catturato quarantadue terroristi. Volevano collocare centinaia di chili di esplosivo nella nostra ambasciata e regalarci il nostro 11 settembre. L’abbiamo impedito con l’intelligence, con il controspionaggio offensivo. Catturati tutti, sequestrati esplosivo, bazooka, kalashnikov. Così abbiamo fatto il nostro dovere. E il controspionaggio offensivo ha vinto».
Ma agli israeliani non è riuscito, se pensiamo ai fatti del 7 ottobre 2024.
«In una recente intervista in Italia, David Barnea, capo del Mossad, ha detto che il Mossad si era piegato alla cyber sicurezza, aveva pensato solo all’intelligenza artificiale come sistema di difesa. Sì, non c’è stato quel controspionaggio offensivo che è sempre stato nelle corde del servizio segreto israeliano».
Cosa pensano i servizi segreti nel mondo, ad esempio Cia e il già citato Mossad, dell’intelligence italiana?
«Il Mossad ha agito utilizzando alcuni strumenti identici al nostro, come il controspionaggio offensivo, in Iran e in altri posti. Anche l’Ucraina, ad esempio, ha svolto operazioni all'interno del territorio russo sfruttando il controspionaggio offensivo, cioè utilizzando uomini, reclutando fonti, acquisendo dati. Nella Cia credo che esista un metodo un po’ più tecnico, un po’ più tecnologico, un po’ meno sviluppato del controspionaggio offensivo per come lo intendo io. Tutti rispettano il nostro operato».
È vero che l’Italia è stata nel mirino dello spionaggio russo?
«Guardi, le ricordo solo che in Italia è stato reclutato dai russi un tenente colonnello della Marina, Walter Biot, catturato dai carabinieri del Ros di Roma mentre stava cedendo schede elettroniche criptate dove all’interno c’erano segreti Nato. Credo abbia ricevuto una pena, tra la giurisdizione militare e quella ordinaria, di circa sessant’anni di carcere. Quindi i servizi segreti russi hanno reclutato un nostro ufficiale. Un fatto. E rammento a me stesso che un cittadino agli arresti domiciliari, Artem Uss, è stato prelevato da un gruppo di persone riconducibili alla ex Jugoslavia, insomma dai Balcani, e riportato in Russia. E la storia dei due comici che sono riusciti a telefonare direttamente alla premier Meloni?».
Che intende?
«Possibile che Putin non sappia che due comici telefonano al presidente del Consiglio italiano? Non credo. Che i servizi segreti russi non abbiano autorizzato i due a fare quella telefonata? Siamo abbastanza nell’occhio del ciclone, mettiamola così».
Prima ha parlato di Mossad e di cybersecurity. Il fattore umano conta ancora nello spionaggio?
«Resta essenziale. Pensate a un drone: mica è capace di leggere tra le righe... invece l’essere umano sa interpretare uno sguardo, un sorriso, un silenzio, un’angoscia, un dispiacere. Sa dove andare per reclutare le fonti, per fare e svolgere controspionaggio offensivo».
Errori che non rifarebbe?
«Se uno lavora commette degli errori, se uno sta fermo dietro la scrivania non ne commette alcuno. Se rispetta anche gli orari di lavoro e rimane all'interno della tangenziale di Roma ne fa ancora meno».
In che cosa consiste essere uno 007?
«Già detto, non è un film. È essere un servitore dello Stato e quindi svolgere una funzione che ti permetta di acquisire informazioni in grado di poter salvaguardare la sicurezza della tua nazione, portare le proprie conoscenze al presidente del Consiglio e mantenere la pace. Questo vuol dire fare l’agente segreto».
Per diventarlo?
«Deve studiare, tanto. E avere voglia di servire il Paese, il sabato, la domenica, a Pasqua, a Natale e in tutte le parti del mondo».
E le fonti come si reclutano?
«Glielo dico la prossima volta».
Magari anche tra i giornalisti?
«Non capisco la battuta. Lei è iscritto all’Ordine?».
Ovvio. Non sto scherzando.
«Perfetto. Se lei vedesse un latitante della ‘ndrangheta credo che per farlo catturare lo direbbe alle forze di polizia o a un agente segreto. Ma questo non vuol dire che lei lavora per i servizi segreti. Spero di essere stato chiaro».
Certo, ma non ha risposto. «Se è certo per lei è certo anche per me».
Passiamo oltre. Esiste in Italia una centrale di dossieraggio?
«Non so a cosa si riferisca».
Il caso Equalize, per esempio.
«Non conosco quella struttura. Credo che ci sia un procedimento penale in corso in cui potrebbero emergere responsabilità penali».
In questi giorni avrà letto dell’arresto dell’ex prefetto accusato di depistaggio per il delitto di Piersanti Mattarella a Palermo. La sparizione del guanto… inquietante. Che idea si è fatto?
«Nessuna idea, perché non ho gli atti. Dovrei leggere gli atti, non gli articoli di stampa».
Conosce l’Abruzzo, ha qualche legame particolare in questa regione?
«Una magnifica regione, dove torno sempre con grande piacere».
Gianni Letta lo conosce?
«Certo. Il dottor Gianni Letta è un’istituzione del nostro Paese. Figura di riferimento dell’intelligence, quando ha svolto la funzione di sottosegretario con delega ai servizi. È una persona straordinariamente importante, capace e competente».
