Moni Ovadia: «L’abbordaggio della Flotilla è un atto di pirateria, e la pace di Trump è finta»

L’attore di origini ebraiche: «Sono anti-sionista. Da 30 anni faccio militanza, penso che Hamas dovrà accettare le condizioni Usa, altrimenti sarà sterminio»
PESCARA. «C’è un passo del Levitico che racconta bene la differenza tra la realtà dell’ebraismo e la sua interpretazione sionista. Dio parla agli ebrei e dice: “Questa terra è mia e abiterete qui come ospiti e stranieri. E gli stranieri vivranno secondo i vostri stessi statuti. Perché voi tutti davanti a me siete solo meticci stranieri. Abitare la terra, non possederla. Questa è la chiave». Pur non definendosi religioso, Moni Ovadia rivendica con orgoglio le sue origini ebraiche. L’attore ne ricorda la spiritualità, l’etica e la cultura. Si riflette nel concetto di esilio, che definisce «il primo passo verso la democrazia dell’uguaglianza, perché nell’esilio l’uomo guarda l’uomo e non il luogo da cui proviene». Tutto l’opposto, quindi, del «sionismo genocidario che sta sterminando la Palestina». Su Gaza il noto attore ha una posizione molto forte. E non da oggi. «Sono 30 anni che mi impegno per la causa palestinese», racconta al Centro. Sta prendendo l’ennesimo treno delle ultime settimane. «La mia militanza è un dovere inderogabile», spiega, «però ho quasi 80 anni e comincio a essere stanco». Ma è solo un momento, perché poi fa un respiro profondo, si ricompone e, con la stessa carica di sempre, sentenzia: «Ma non posso fermarmi, specialmente ora che la Flotilla è a nelle mani degli israeliani».
Ovadia, partiamo proprio da qui. Mentre parliamo la Flotilla sta subendo l’abbordaggio da parte di Israele. Che valore dà alla missione?
«È un atto di solidarietà enorme. Sono esseri umani che si sono mobilitati per una delle più grandi ingiustizia della storia. Per trovare un movimento simile dobbiamo tornare indietro fino alle brigate internazionali in Spagna, ai tempi della guerra civile. Oggi li guardo con apprensione e sono preoccupato per loro. L’abbordaggio da parte di Israele è un atto di pirateria vero e proprio. Non hanno il diritto di fermare nessuno, perché quel blocco è illegale e stanno trattenendo quelle navi senza alcuna autorità, senza alcun rispetto per il diritto internazionale. Anzi, senza rispetto per niente e nessuno».
Era l’accoglienza che si aspettava?
«Più o meno. Gli israeliani li considerano terroristi, ma visto che c’è questo tentativo di finta pace in corso, è comprensibile che si fermino all’arresto. Non è ancora detta l’ultima parola, però, perché parliamo di uno Stato terrorista che ha tritato il diritto internazionale».
Parla di “finta” pace: il progetto in 20 punti di Trump è un inganno?
«Meglio: è una trappola. I palestinesi non sono mai citati nel documento. Se avessero voluto davvero costruire una pace giusta, avrebbero dovuto almeno individuando i confini del futuro Stato di Palestina. Il mio pensiero è che Trump sia intervenuto per evitare che Netanyahu si compromettesse definitivamente. Ma non c’è alcuna volontà di costruire un progetto giusto e che consideri i palestinesi. E infatti hanno messo a capo di questo progetto Tony Blair, un criminale di guerra ».
Non le piace Tony Blair?
«Porta sulla coscienza il peso di 500mila bambini iracheni morti. Anche loro avevano i peluche, esattamente come i bambini ucraini, soltanto che i media non ce li hanno fatti vedere».
Pensa che Hamas accetterà la proposta?
«Hamas ha una pistola attaccata alla tempia. Se dicono di no, è sicuro che stermineranno i palestinesi rimasti ancora in vita. Ripeto, però, che per i palestinesi è una trappola».
Allora qual è il vero progetto di Trump e Netanyahu?
«I sionisti aspetteranno che diminuisca la pressione dell’opinione pubblica internazionale. A quel punto ricominceranno da capo. Finché il sionismo sarà l’ideologia portante di Israele nessuna pace basata sulla giustizia sarà possibile».
Qual è la sua definizione di sionismo?
«È quell’ideologia colonialista razzista, suprematista e alla fine genocidaria per cui quella terra li appartiene. Il sionismo buono non è mai esistito. Lo slogan con cui sono presentati in principio era “una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Solo che un popolo c’era: erano un milione e mezzo di palestinesi».
Quanto è legato il sionismo al fattore religioso?
«Guardi che all’inizio il sionismo a livello politico era un movimento laico. Solo dopo ha preso la strada del fanatismo religioso, confondendo, tra l’altro, la terra promessa con la promessa di una terra».
Che intende?
«C’è un verso del Levitico che lo spiega perfettamente. Dio ha appena chiesto agli ebrei di costituire il Giubileo e dice loro: “La terra non verrà venduta per sempre perché la terra è mia. Voi abiterete come ebrei soggiornanti. Anzi, come stranieri soggiornanti insieme allo straniero che godrà dei vostri stessi statuti. Ricordatevi che siete stati stranieri in terra d'Egitto”. Ma l’ultimo frammento del verso è il più importante: “Perché voi tutti davanti a me siete solo stranieri soggiornanti”. Ecco il concetto chiave: abitare la terra, non possederla. È su questo punto che i sionisti hanno fatto confusione».
Come vive oggi il suo rapporto con l’ebraismo?
«Con grande serenità. Non sono religioso, ma rivendico con fierezza la parte della mia identità ebraica, quella internazionalista della diaspora. Vivo nella sua spiritualità, nella sua cultura e nei suoi valori etici. Le dirò di più: da questo punto di vista, il sionismo di Israele è l’opposto dell’ebraismo. Uno parla di terra, l’altro di esilio, che è la vera eredità culturale dell’ebraismo».
In che modo parla di esilio?
«Vede, l’esilio è la più grande forma di splendore per l’uomo».
La parola esilio non è carica di negatività? Non significa essere costretti a stare lontani dalla propria terra?
«Non è negativa. Vivere nell’esilio significa vivere nell’instabilità, e questo obbliga a essere sempre attivo nel pensiero. Soprattutto, nell’esilio l’uomo cerca gli occhi dell’altro uomo, non il suo portafoglio. Non conta più da dove vieni, ma chi sei. L’esilio ti fa capire che sei solo un uomo su questa terra e nient’altro, che proprio per questo ogni uomo è uguale all’altro. Si potrebbe anche dire che il concetto di esilio è il primo passo della democrazia».
L’antitesi del concetto di esilio qual è?
«Il nazionalismo, che è una metastasi, la peggiore forma di tumore che uccide gli uomini dall’inizio dei tempi».
Il sionismo si inserisce in questa categoria?
«Sì, anche se è un fenomeno più complesso. Per esempio, è vero che è legato al fanatismo religioso, ma esistono gruppi ultra ortodossi dell’ebraismo che sono radicalmente contrari al sionismo e a Israele».
Ad esempio?
«Si chiamano Neturei Karta. È un gruppo militante che sostiene che Israele sia criminale tanto sotto il profilo umanitario che blasfemo sotto quello religioso. Sono sempre stati dalla parte dei palestinesi, al punto che propongono come soluzione lo smantellamento pacifico dello Stato di Israele. Lo scorso giugno a Vienna c’è stato il primo congresso mondiale degli ebrei anti-sionisti a cui hanno partecipato anche israeliani. Solo che non ne ha parlato nessuno, perché le lobby sioniste non vogliono che altri ebrei si esprimono contro di loro. Me incluso».
Che intende?
«Che sono stato penalizzato dal fatto di essere un ebreo che ha posizioni così radicali sul sionismo. Per questo motivo ci sono persone con le mie stesse idee che vengono invitate in televisione mentre io, invece, no. Ripeto, le lobby sioniste sono micidiali, anche fuori da Israele».
A proposito di Israele, quanto conosce a fondo questo Stato?
«Ci sono andato diverse volte. Tra il 1999 e il 2000 ho fatto anche il “corrispondente” per il Corriere della Sera. In ogni caso, non posso dire di conoscerlo a fondo. E non me ne rammarico nemmeno, perché non mi aveva mai convinto come Stato, ben prima degli avvenimenti degli ultimi 2 anni».
Perché?
«Perché non è una democrazia. Uno Stato segregazionista non può essere considerato democratico. Si è chiesto perché i sionisti non hanno mai definito i confini di Israele? Volevano le mani libere per agire senza alcun freno. Se fossero stati veramente democratici si sarebbero ritirati sulla linea armistiziale del 1949. Se l’avessero fatto, noi non staremmo qui a parlare oggi».
Eppure, chi sostiene Israele oggi sottolinea spesso come sia l’unica democrazia del Medio Oriente. E che per questo vada difesa.
«Sono insopportabili. Come tutte quelle litanie sull’omosessualità che è punita dall’Islam. Può essere questo un buon motivo per sterminare un popolo? Stiamo scherzando?».
In Italia c’è qualche figura politica a cui si sente vicino?
«Paolo Ferrero, qualche donna del Movimento 5 Stelle come Chiara Appendino. E forse Giuseppe Conte. Io ho idee più radicali, ma penso che con loro si possa istituire un dialogo».
Ha ancora qualche speranza per il futuro della Palestina?
«Prima che uccidessero Rabin, avevo qualche speranza nella possibilità di veder nascere lo Stato di Palestina. Oggi, ma lo dico in senso più ampio, le mie speranze sono riposte nei Paesi del Brics (un insieme di economie emergenti tra cui Cina, India, Russa e, recentemente, Indonesia, ndr). Però le assicuro una cosa».
Che cosa?
«Anche se ho quasi 80 anni e comincio a essere stanco, non smetterò la mia militanza per la Palestina, una delle più grandi ingiustizie della storia. È un impegno inderogabile».