Una riflessione teologica per Maria “Corredentrice”

La vicenda offre un ottimo spunto di riflessione, sul valore della teologia e sull’importanza di approfondirla, non per erudizione ma per verità
CHIETI. Può un titolo mariano incidere sulla fede professata dai cattolici? Una domanda che echeggia da un paio di settimane dopo il chiarimento da parte della Congregazione per la dottrina della fede nella nota “Mater populi fidelis” firmata dal cardinale prefetto Víctor Manuel Fernández e dal segretario per la sezione dottrinale monsignor Armando Matteo. Il punto di snodo è il ruolo di Maria come “Corredentrice” e “Mediatrice di tutte le grazie” dell’umanità, nomenclature ritenute «inappropriate». Una precisazione teologica sulla quale già papa Benedetto XVI prima e Francesco poi a più riprese hanno invitato a prestare attenzione e cautela. La storia della Chiesa è un cammino di ricerca verso la verità che passa attraverso le pagine dei secoli avanzando tra dubbi e dogmi, tra proposte e decisioni comunitarie, per illuminare il futuro della Chiesa stessa.
Eppure una parte di fedeli ha accolto con sgomento la decisione di privare la Madonna di titoli che sembravano ormai consolidati e strettamente connessi al suo ruolo primario nell’Incarnazione del Verbo, in qualità di Madre di Dio. Il rischio, secondo il documento in questione, è quello di «oscurare l’unica mediazione salvifica di Cristo e, pertanto, può generare confusione e squilibrio nell’armonia della verità della fede cristiana», basandosi proprio sulle testimonianze neotestamentarie. A partire dagli Atti degli apostoli (“In nessun altro c’è salvezza: non vi è infatti sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che siamo salvati”, riferendosi a Gesù, At 4,12) e passando per le lettere di Paolo (“Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù", Rm 3,23-24).
Gli stessi Padri della Chiesa si sono avvalsi di questa formula, se non identica ma comunque concettualmente simile. Come Ireneo di Lione (II secolo) che parla della Madre di Dio come “causa della salvezza” (causa salutis), portando avanti una tradizione che si sarebbe poi consolidata nel Medioevo. Il Concilio Vaticano II nel secolo scorso ha offerto una sintesi e una strada da seguire ripartendo proprio dalla purezza delle origini. Tra i tanti documenti promulgati, vere pietre miliari lungo il sentiero verso la salvezza, la Dei Verbum afferma in modo incontrovertibile che solo Gesù Cristo sia «mediatore e pienezza della Rivelazione». Vale a dire, in parole più semplici, che la redenzione dell’uomo passa solo attraverso il Figlio di Dio venuto nel mondo a “mostrare il volto del Padre”, come ricorda l’evangelista Giovanni. Di conseguenza Maria, pur godendo di una speciale grazia, sancita anche dal dogma dell’Immacolata concezione, non è dispensatrice di una redenzione diretta, alla pari di Cristo. La vicenda allora offre un ottimo spunto di riflessione, sul valore della teologia e sull’importanza di approfondirla, non per erudizione ma per verità. Come ha confermato Leone XIV pochi giorni fa inaugurando l’anno accademico della Lateranense: «Oggi abbiamo urgente bisogno di pensare la fede per poterla declinare negli scenari culturali e nelle sfide attuali. La teologia stessa è chiamata a riflettere sul deposito della fede e a farne emergere la bellezza per incoraggiare la ricerca di Dio».
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