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1 Dicembre

Oggi, ma nel 1980, a Roma, nell’androne del palazzo di via Bartolomeo Gosio 115, un commando di presunti brigatisti, ma che rimarrà senza essere identificato, assassinava, con due colpi di pistola calibro 38 sparati alla testa, Giuseppe Furci (nella foto, il cadavere), classe 1926, romano, da sei anni direttore sanitario del centro clinico del penitenziario di Regina Coeli. L’agguato mortale avveniva sotto l'abitazione del medico. La colonna milanese Walter Alasia delle Brigate rosse rivendicava l’omicidio, con la telefonata, del giorno dopo, 2 dicembre, al centralino della redazione meneghina del quotidiano comunista "L'Unità". Ma la matrice del delitto risultava non credibile, sia perché Furci non aveva avuto precedenti incarichi lavorativi nel capoluogo lombardo, come sostenuto dai terroristi, sia perché non si era mai verificato che un gruppo di fuoco del genere agisse fuori dal territorio di appartenenza e imponesse all'opinione pubblica di Milano come proprio un omicidio compiuto a Roma. Il 5 ottobre precedente Furci era scampato all'attentato dinamitardo ordito sotto il suo studio. La miccia si era spenta e l'esplosione non si era verificata. Aveva negato il trasferimento in ospedale a "Lallo lo zoppo", il boss della mala romana Laudavino De Sanctis detto così da quando, durante un'evasione proprio dal carcere di Regina Coeli, si era fratturato una gamba. Ma la sua impopolarità era cresciuta per l'atteggiamento tenuto nei confronti dei tossici, essendo contrario alla somministrazione di metadone e di morfina. La rivendicazione, come riportata sul quotidiano torinese "La Stampa", del 3 dicembre successivo, esprimerà ulteriori dubbi sulla responsabilità dei malviventi di estrema sinistra: «Qui le Brigate rosse. Abbiamo ammazzato noi il dottor Furci di Roma. Lo conosciamo bene perché prima era a Milano. Adesso il primo sarà Bettino Craxi perché ha fatto arrestare un nostro compagno». Mai in precedenza i brigatisti nei loro comunicati avevano reso noto quale sarebbe stato il loro prossimo obiettivo. Il medico di Regina Coeli era un bersaglio facile per gli assassini perché si spostava senza scorta e le sue abitudini erano ben note. Pur senza avere alcun potere particolare, era ritenuto dai criminali un uomo simbolo. Sulle sue relazioni mediche, infatti, si orientavano le decisioni del direttore del carcere e dei magistrati sulla concessione o meno di permessi e di ricoveri nelle strutture ospedaliere civili. Nella mentalità dell'eversione rossa, un professionista che lavorava con scrupolo era da colpire perché infondeva credibilità alle strutture dello Stato.

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