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12 novembre

Oggi, ma nel 1994, a Brentwood, nel Tennessee, moriva, a 54 anni, per un tumore al cervello, Wilma Rudolph, americana di colore di Clarksville, classe 1940, vincitrice di tre medaglie d’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960: nei 100 metri piani, nei 200 e nella staffetta 4x100. Era attiva con la sua fondazione che si occupava di bambini in difficoltà.

Le sue prestazioni agonistiche nella Città eterna avevano incendiato gli animi degli addetti ai lavori e non solo. La sua statuaria bellezza -era alta 180 centimetri- l’essere riuscita a battere la poliomielite che l’aveva minata fino ai 12 anni e che l’aveva quasi costretta all’amputazione della gamba sinistra, l’essere nata e cresciuta come ventesima di una famiglia afroamericana estremamente povera con 22 figli, aveva catturato l’attenzione dei mezzi d’informazione internazionali. Grande risalto mediatico era stato dato anche alla notizia della presunta storia d’amore col velocista tricolore Livio Berruti (i due atleti, entrambi primatisti mondiali nelle rispettive categorie di genere, insieme nella foto simbolo, proprio nell’Urbe, nell’estate ’60, scattata, al villaggio olimpico, dopo lo scambio delle tute delle rispettive nazionali), torinese, del 1939, trionfatore nei 200 metri maschili negli stessi Giochi a cinque cerchi capitolini, svoltisi dal 25 agosto all’11 settembre. Lei era già madre di una bambina, avuta nel suo primo anno da atleta senior, ed aveva un compagno, Robert Eldridge, che la attendeva negli States. Wilma e Livio avevano il colore della pelle differente, quando ancora c’era diffidenza verso unioni di quel tipo, non a caso la madre di Wilma, Blanche, aveva lavorato per una vita come domestica in casa di una famiglia di americani bianchi, in una situazione ritenuta di segregazione razziale.

Livio e Wilma non riuscivano a capirsi se non a gesti perché non parlavano l’uno la lingua dell’altro. E si potevano vedere solo fugacemente e di nascosto perché gli allenatori americani avevano proibito qualsiasi distrazione alla loro “gazzella nera”. Nella squadra italiana di atletica leggera, invece, vigeva il divieto assoluto di praticare sesso prima delle gare. Sarà lo stesso Berruti a precisare i dettagli della vicenda sentimentale. Ne parlerà alla giornalista Gaia Piccardi, del quotidiano milanese Corriere della sera, nell’articolo pubblicato il 23 agosto 2010, in occasione del 50° anniversario dall’appuntamento olimpico romano. “«Io e Wilma non consumammo mai quell'amore». Perché, Livio? «Perché gli allenatori della squadra Usa, che al villaggio olimpico ci seguivano ovunque, mi fecero capire che su Wilma aveva messo gli occhi un giovane pugile del Kentucky, che sarebbe stato meglio non infastidire per due motivi: perché era a Roma per vincere l'oro dei mediomassimi, una delle medaglie a cui gli Stati Uniti tenevano di più, e perché, se provocato, sarebbe potuto diventare aggressivo. Quel pugile che stava dietro a Wilma era un certo Cassius Clay»”.

Nonostante ciò Berruti si era presentato nel quartier generale a stelle e strisce dopo la vittoria della Rudolph nella staffetta, ma non l’aveva trovata. Era stata imbarcata in fretta e furia su un aereo per tornare negli Usa. Così non si erano più rivisti.