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23 Marzo

Oggi, ma nel 1950, a San Severo, in provincia di Foggia, uno dei 70 agenti del reparto celere della Pubblica sicurezza inviati dal ministro dell'Interno, democristiano, Mario Scelba nel reprimere la protesta popolare organizzata contro il carovita e soprattutto per rivendicare più umane condizioni di lavoro nelle campagne della Capitanata, uccideva il manifestante Michele Di Nunzio, di 33 anni, sparando ad altezza d'uomo nel tentativo di disperdere la folla assembrata. L'assassino non verrà identificato. Contestualmente venivano arrestate 184 persone (nella foto, le donne di San Severo ammanettate pronte per essere tradotte nel carcere di Lucera secondo il servizio del settimanale Epoca del numero successivo alla rivolta) con l'accusa di "insurrezione armata contro i poteri dello Stato". Il giorno precedente, 22 marzo, si era tenuto in città lo sciopero, allineandosi con quello generale indetto dalle sigle sindacali per protestare contro la politica adottata dal governo del democristiano Alcide De Gasperi. Inoltre il 21 marzo, a Lentella, in provincia di Chieti, le forze dell'ordine avevano assassinato i braccianti Nicolantonio Mattia, di 41, e Cosimo Maciocco, di 26, che erano in rivolta. Questo episodio, al quale il quotidiano comunista l'Unità aveva dedicato la prima pagina il 22 marzo 1950, aveva scatenato i tumulti di San Severo. La dimostrazione era stata coordinata dal segretario della Camera del lavoro locale Carmine Cannelonga che aveva tentato di promuovere un corteo pacifico. Gli scontri, invece, erano stati enfatizzati dalla richiesta di rinforzi, alla Questura di Foggia, da parte del commissario di Pubblica sicurezza di San Severo Gaetano Ricciardi. I 70 celerini arrivati erano capeggiati da Gioacchino Ventura. Gli arrestati verranno processati e dopo 62 udienze, a Bari, il 5 aprile 1952, verranno assolti dall'accusa principale. Solo 12 rimarranno in cella. Ma l'iter giudiziario, dall'avvio alla conclusione, susciterà scalpore anche per la presenza delle numerose madri che, dovendo rimanere in galera, avevano dovuto affidare i loro figli ad altre famiglie, anche del nord Italia.

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