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26 Luglio

Gregorio XVI, in onore del padre, Giovanni Torlonia, sempre grazie ad argani a rulli e 200 addetti ai lavori. Le incisioni erano basate su testi redatti dal padre barnabita bolognese Luigi Ungarelli, egittologo esperto di geroglifici. Per far sembrare le opere d'arte il più veritiere possibile. Ma per consentire la comprensione dei testi, Alessandro Torlonia ne faceva scolpire la traduzione in latino sulle basi in travertino. Traduzione che era stata eseguita da monsignor Gabriele Laureani, custode generale dell’accademia dell’Arcadia, e primo custode della biblioteca Vaticana. Il complesso residenziale in questione, di stile neoclassico, era stato iniziato da Giuseppe Valadier, nel 1802. Poi la realizzazione era stata continuata da Giovan Battista Caretti, dal 1832. Nel 1978 verrà adibito a parco pubblico capitolino. La villa è caratterizzata da tredici edifici, alcuni dei quali simulano ambienti misteriosi e fiabeschi, come la casina delle civette. I due obelischi erano in granito rosa della cava di Monte Sempione di Baveno, il più simile a quello di Assuan, in Egitto, ed erano stati costruiti ad imitazione di quelli egizi. Perchè in origine, il nobile Alessandro Torlonia aveva chiesto al viceré egiziano di poter avere due obelischi, ma non aveva ricevuto risposta, così aveva optato per la soluzione casalinga. Erano stati trasportati nell'Urbe dal lago Maggiore, via fiume, fino alle foci del Po, poi il viaggio era proseguito sul mare a bordo del bastimento Fortunato, fino a risalire il corso dell’Aniene. Dallo sbarco a Ponte Nomentano fino alla villa il viaggio via terra era durato otto giorni. Quindi il primo dei due monumenti era stato innalzato con tanto di festa aperta alla cittadinanza.In realtà era stata un'odissea. Si era trattato di un lungo viaggio iniziato nella primavera del 1839 quando gli obelischi grezzi erano stati trasportati dalla cava al paese di Baveno, in riva al lago Maggiore, per poco meno di quattro chilometri tutti in discesa. In assenza di strade e mezzi, erano stati fatti scivolare su un letto di assi e travi di legno, fino a due imbarcazioni a fondo piatto arenate sulla spiaggia. Da lì era iniziata la navigazione sul lago fino a Sesto Calende, poi sul Ticino, quindi sul Naviglio grande, fino a Milano, ed infine sul naviglio della Martesana dove, terminata la prima tappa, da cento chilometri, i due pezzi erano stati fatti sbarcati e rifiniti nello studio dello scalpellino Antonio di Nicola Pirovano. I manufatti erano poi stati imbarcati di nuovo, avevano quindi navigato sul naviglio Pavese, ancora sul Ticino, sul Po, passando per Piacenza, per Cremona, per Guastalla, per Pontelagoscuro e per Cavanella Po. Utilizzando l’Adige e il Brenta le due chiatte erano giunte a Brondolo di Chioggia e sulla laguna erano arrivati a Venezia, dopo una navigazione di 600 chilometri misurata a partire dalla cava. Il trasporto per mare era stato affidato al capitano della marina pontificia Alessandro Cialdi, originario di Civitavecchia. Che nel porto della sua città aveva scelto il Fortunato, trabaccolo a due alberi al quale era stata rimossa la coperta per permettere di alloggiare il carico speciale. Da Venezia, costeggiando la Dalmazia, il Fortunato era stato costretto a trovare riparo da una tempesta nel porto di Durazzo, poi aveva costeggiato la Puglia e la Calabria, passato lo stretto di Messina ed era finalmente giunto a Fiumicino. Alla foce grande il trabaccolo era entrato nel Tevere ed era stato trainato da bufali fino allo scalo fluviale di San Paolo. Il 9 gennaio 1840, dopo ben 2.880 chilometri di viaggio estenuante, i due obelischi avevano fatto il loro trionfale ingresso nel parco della villa, alla presenza di Maria Cristina di Borbone-Napoli, vedova di Carlo Felice re di Sardegna, tra colpi di cannone a salve, e musica della banda.

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