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5 Dicembre

Oggi, ma nel 1958, a Roma la corte costituzionale depositava le motivazioni della sentenza 74/'58, che verranno poi registrate il giorno dopo, respingendo la questione di legittimità delle norme sulla repressione del fascismo contenute nella legge che portava il nome del ministro dell'Interno democristiano del settimo governo presieduto da Alcide De Gasperi, Mario Scelba. La sentenza ne circoscriveva l’ambito in via interpretativa. Veniva puntualizzato che, in base al principio di libertà di pensiero, stabilito dall'articolo 21 della costituzione italiana, non potessero essere vietate le esternazioni di opinioni fasciste o le manifestazioni di simpatia verso il fascismo. Potevano invece essere vietate solo le esternazioni atte a porre in essere, concretamente, il pericolo della riorganizzazione del disciolto Partito nazionale fascista. La sentenza verrà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, del 20 dicembre successivo, numero 307. Scatenerà un putiferio. Soprattutto negli ambienti a marcata impronta antifascista. Presidente della Corte costituzionale era Gaetano Azzariti (nella foto), napoletano del 1881, a capo della suprema corte dal 6 aprile 1957, già ministro di Grazia e giustizia del governo guidato dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, rimasto in carica dal 27 luglio 1943 al 24 aprile 1944. Giudici costituzionali erano: Giuseppe Cappi, Tomaso Perassi, Gaspare Ambrosini, Ernesto Battaglini, Mario Cosatti, Francesco Pantaleo Gabrieli, Giuseppe Castelli Avolio, Antonino Papaldo, Nicola Jaeger, Giovanni Cassandro, Biagio Petrocelli, Antonio Manca, Aldo Sandulli. La sentenza riuniva, nei giudizi di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'articolo 5 della legge 20 giugno 1952, numero 645, le decisioni che erano state promosse con tre ordinanze. Quella del 29 aprile 1957, emessa dal pretore di Como, nel procedimento penale a carico di Giovanni Maccarrone, pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica, numero 161, del 28 giugno 1957; quella del 7 dicembre 1957, emessa dal pretore di Forlì, nel procedimento penale a carico di Luigi Fratesi, pubblicata nella Gazzetta ufficiale, numero 21, del 25 gennaio 1958; quella del 7 dicembre 1957, emessa dal pretore di Forlì, nel procedimento penale a carico di Alberto Monti, pubblicata nella Gazzetta ufficiale, numero 21, del 25 gennaio 1958. Così, pronunciandosi con un'unica sentenza sui tre procedimenti riuniti, la Corte costituzionale dichiarava infondata la questione di legittimità costituzionale della norma contenuta nell'articolo 5 della legge 20 giugno 1952, numero 645, in riferimento alle norme contenute nella XII delle disposizioni transitorie e finali e nell'articolo 21, primo comma, della Costituzione. Prima di ricorrere alla Corte costituzionale era stato universalmente sostenuto, negli ambienti politici di ultradestra e neofascisti, che la norma in esame, in sostanza, negasse agli esponenti politici e ai sostenitori dell'area politica menzionata i diritti dichiaratamente garantiti dalla Costituzione. Soprattutto in termini di libertà associativa e di libertà di manifestazione del pensiero. La questione era stata al centro di animatissime polemiche politiche e giornalistiche, poiché esponenti del Movimento sociale italiano, del segretario nazionale Arturo Michelini, venivano continuamente trascinati nei tribunali e accusati di aver commesso tali reati, il più delle volte tentando di impedire loro qualsiasi forma di esternazione.

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